Su e attorno al libro di Marco Geddes da Filicaia

Almeno tre sono le considerazioni, con i conseguenti giudizi-indicazioni, che suscita la lettura di questo libro.

PRIMA CONSIDERAZIONE
Riguarda la qualità della scrittura, la ricchezza dei dati riportati, la chiarezza delle proposte che vengono fatte per garantire la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Si può essere d’accordo o meno sulle singole soluzioni, ma esse sono in ogni caso documentate e affrontate in modo critico. E sono considerate nell’ambito di un disegno complessivo che va dalle strategie per ridurre gli sprechi a quelle di riduzione dei bisogni.
Lo schema su cui intervenire riprende quanto la letteratura più attenta da tempo propone in tema di sprechi, stimati per il nostro SSN in circa 25 miliardi di euro, e imputabili a: sovra utilizzo, sotto utilizzo, frodi e abusi, inadeguato coordinamento dell’assistenza, complessità amministrative, acquisti e costi eccessivi.
Dentro questo schema, l’attenzione viene rivolta a:
la politica dei farmaci, in particolare relativamente all’aumento dei prezzi – da costi per la ricerca vs costi per il marketing, da abuso di posizione dominante piuttosto che da secretazione delle procedure di contrattazione tra produttore e AIFA;
la riorganizzazione dell’assistenza, spesso affrontata in modo poco originale – l’autore cita “l’epidemia planetaria delle riforme” – se non grossolano, pur di dimostrare che “qualcosa è stato fatto”, ovvero in funzione del marketing politico, o ancora per ridefinire/ sostituire staff poco affidabili o non allineati;
lo stato della medicina di base, alquanto deficitario – per carenza di medici e infermieri, per la mancanza di una adeguata politica di sostengo all’aggregazione di queste figure in consistenti nuclei territoriali, per le lacune nei piani formativi;
lo sbilanciamento verso l’innovazione, a scapito della manutenzione strutturale e organizzativa del sistema nelle sue diverse articolazioni.
In merito alla riduzione dei bisogni, ovvero delle patologie per “la loro incidenza, la loro prevalenza, le disabilità conseguenti e il derivante consumo di risorse sanitarie”, il focus è centrato sulla prevenzione, separando quella “falsa” da quella scarsamente efficace, da quella invece di provata efficacia, ovvero stabilendo priorità sulla base di parametri di efficienza, efficacia, equità.
In altri termini, il lavoro può essere considerato il frutto maturo di una riflessione in corso da tempo, messa a disposizione, in modo a volte accattivante, ad un pubblico ampio. Da qui, l’invito a leggerlo.

SECONDA CONSIDERAZIONE
Si riferisce all’approccio generale adottato per affrontare il tema della sostenibilità del SSN, e sviluppato nelle circa 150 pagine del volume. Specularmente a chi sostiene la insostenibilità del nostro SSN, e non sono pochi seppur con punti di vista diversificati, l’autore porta evidenze e argomenta interpretazioni opposte. E dal momento che corollario altrettanto diffuso della insostenibilità del SSN è la necessità di potenziare le forme private di assicurazione collettiva (fondi sanitari contrattuali, fondi aziendali, società di mutuo soccorso, casse professionali, enti bilaterali, ecc.) o individuali (le polizze personali sottoscritte con compagnie di assicurazione), l’autore mette in luce – tranne in un passaggio, su cui poi torneremo – le criticità di tale scelta. Da questo punto di vista, il libro si presta a (vuole?) essere uno strumento di polemica politica sul presente e futuro del nostro modello sanitario pubblico. Rimanendone però condizionato, e non poco, non tanto su quanto dice, quanto soprattutto su ciò che non dice.



Significativa del condizionamento la dedica: “Al personale del Servizio sanitario nazionale – infermieri, medici, operatori socio-sanitari – che da quarant’anni, con la sua opera e il suo impegno, difende questa fondamentale conquista civile”. A parte il fatto che non vengano citate altre professionalità – gli amministrativi, ad esempio, non partecipano a tale compito? – o altre componenti – una per tutte, il mondo della ricerca biomedica, tecnologica, economica, con i contigui settori dell’informazione e della cultura scientifica, ecc. – che, seppur non necessariamente interne al SSN, ne hanno garantito e non poco i miglioramenti e la stessa sostenibilità, l’interrogativo riguarda il verbo usato: difendere.
Nel SSN, come peraltro in molti altri settori lavorativi, ci sono operatori (i più) che credono in quello che fanno e cercano di farlo al meglio, con risultati di assoluto riguardo, come si dimostra nel volume. Al contempo, però, anche nel SSN ci sono situazioni che segnalano tutt’altre convinzioni e comportamenti, dal menefreghismo a manifestazioni corporative in evidente contraddizione con la funzione pubblica svolta, a veri e propri comportamenti illegali se non gravemente criminosi. Difendere un lavoro vissuto con dignità non solo è positivo, ma doveroso. Attribuire a chi vi lavora, e in quanto lavoratore/trice, la difesa di una istituzione giustamente considerata “fondamentale conquista civile”, rischia però di prestare il fianco a non pochi paradossi.
Ne indichiamo due. Il primo: confondere gli interessi particolari con l’interesse generale. Le istituzioni pubbliche sono dei cittadini e per i cittadini, e sono questi che, se d’accordo – come continuano a confermare i diversi sondaggi sul SSN – credendo nel loro valore le devono difendere. I relativi dipendenti, oltre che cittadini, sono naturalmente portatori di interessi specifici, ovviamente da considerare, ma in questo caso come tali. In quanto poi dipendenti di un servizio pubblico hanno l’obbligo deontologico di rispettare la volontà generale che si è venuta a formare secondo procedure stabilite dallo stesso ordinamento. E se le procedure sono inadeguate, come possono essere per esempio certe leggi elettorali, ci si impegna per il loro cambiamento.
Il secondo: le istituzioni sono strumenti, particolari in quanto beni pubblici e/o comuni, rispetto ad un fine, ma non sono il fine stesso. Ribadendo la condivisione del giudizio sul SSN appena virgolettato, la valutazione di una istituzione non può essere data una volta per tutte ma si misura sulla finalità per cui è stata creata (nel nostro caso la tutela della salute, art.32 Cost.) e sulla declinazione di tale finalità alle situazioni via via cambiate. In altri termini, i fini permangono mentre le istituzioni possono/debbono cambiare, qualora ciò sia utile in funzione del perseguimento di quegli stessi fini. Paradosso nel paradosso, difendere un’istituzione, in condizioni ampiamente modificate rispetto alla sua nascita, potrebbe farle più male che bene. Al contempo, le istituzioni sono anche bersaglio non solo o tanto di chi non le giudica positive (risorsa per il miglioramento), ma altresì di chi intende negare i principi per cui sono state costituite. Si può in sostanza affermare che la difesa del SSN è un compito che ha almeno due “nemici”: da una parte, chi non volendolo aggiornare ne pregiudica la funzione; dall’altra chi, contrario alla funzione svolta, vuole negare i principi su cui si basa.
Da qui, la conferma dell’invito a leggere questo libro, ma invitando il lettore ad assumere criticamente il presupposto da cui parte.

TERZA CONSIDERAZIONE
Riguarda il non detto, in particolare relativamente a: il socio-sanitario gestito dalle famiglie che, non senza contraddizioni e crescenti fragilità, rappresenta un vero e proprio pilastro senza il quale gli altri tre – pubblico, dei fondi integrativi e delle assicurazioni private – vedrebbero minata la loro sostenibilità; quanto si sta facendo a livello territoriale – regionale e di città metropolitane – in tema di governance della sanità integrativa. Di entrambe l’autore di fatto non ne parla.
Quasi 25 pagine – il capitolo 7 – sono dedicate ad evidenziare i limiti e le contraddizioni delle forme di sanità integrativa, dimostrando che, considerata in sé e visti i rischi, tutt’altro che infondati, di incremento di consumi inappropriati, di indebolimento della continuità assistenziale, di inefficienza, di equità, che determina, non può essere la soluzione ai problemi di sanità pubblica con cui dobbiamo misurarci. Sul piano teorico non si può essere che d’accordo.
La realtà italiana, però, presenta una situazione alquanto articolata. Sulla base di dati economico-finanziari disponibili provenienti da fonti diverse1, solo parzialmente richiamati nella prima parte del volume oggetto di questa recensione, vi sono cinque ordini di questioni da evidenziare.
Il primo. Il sottofinanziamento del SSN è accompagnato da una altrettanto significativa riduzione (sottofinanziamento) del sistema dei servizi socioassistenziali, mentre si è in presenza di un aumento del cosiddetto welfare monetario, previdenziale ma soprattutto assistenziale. All’interno di questo scenario, la spesa privata è rimasta da trent’anni a questa parte in costante rapporto al Pil (tra il 2 e il 2,5%), mentre è a causa della riduzione di quella pubblica sul Pil che essa presenta un lieve trend di crescita relativo e in valori assoluti. L’incidenza della nostra spesa privata sanitaria complessiva, inoltre, non risulta significativamente diversa da quella che si manifesta in Paesi a noi omogenei. In essa, da precisare, si trovano anche consumi non sempre inquadrabili nelle prestazioni tipicamente considerate sanitarie, ovvero riconosciuti come meritori (es. interventi estetici). L’anomalia italiana si caratterizza invece per la forte incidenza della spesa privata out of pocket su quella intermediata che, quasi conseguentemente, per una rilevante area di evasione fiscale (pari almeno ad 1/3 della stessa, secondo la Corte dei Conti) imputabile sempre alla spesa out of pocket.
Il secondo. Pare difficile, almeno per ora, immaginare quindi che il welfare intermediato dai fondi sanitari possa essere causa dell’indebolimento del SSN, o subentrare ad esso in modo sostitutivo. Coinvolge, con piani assistenziali peraltro assolutamente variegati, e a volte inappropriati, tra 1/6 e 1/5 della popolazione italiana e per questa gestisce 1/30 circa della spesa totale. La crescita della sua platea di assicurati, ad oggi, è frutto soprattutto di scelte degli attori collettivi – le parti sociali attraverso la contrattazione di primo e secondo livello – piuttosto che di adesioni individuali. Ciò è correlato alla difficoltà, negli anni di crisi, di aumentare i salari netti e alla scelta, a livello di politiche economiche, di usare il welfare aziendale come strumento per incrementare la produttività. Nel corso di questi ultimi anni, peraltro, a tale crescita si accompagna una significativa diminuzione relativa dei premi pro capite versati. È altresì vero che una quota di prestazioni garantite sono di tipo sostitutivo a quelle pubbliche, ma il livello di fruizione dell’offerta privata è determinato da variabili composite (accesso ai servizi, fiducia nell’erogatore, tipologia di prestazioni, ecc.) rispetto alle quali l’assicurato sviluppa comportamenti articolati di consumo/acquisto, certamente non automatici, come emerge per esempio dalla propensione all’acquisto out of pocket dei farmaci brand invece di quelli generici (con un differenziale di spesa di circa 1 miliardo). Significativo, in ogni caso, il fatto che una parte importante delle attività dei Fondi Integrativi Sanitari (FIS) sia riassicurata e che il rapporto tra questi e le compagnie di assicurazione non sia chiaramente regolamentato. A questo si deve aggiungere che le coperture assicurative long term care dei fondi sono limitate e, quando ci sono, hanno come target popolazioni i cui rischi di non autosufficienza, viste le classi di età interessate (la popolazione in età di lavoro), sono relativamente molto bassi.
Il terzo. Rispetto alla cd anomalia italiana – ovvero l’ingente quota di spesa privata out of pocket, pari ad 1/3 della spesa pubblica e circa 1/4 di quella totale – è da evidenziare che al suo interno riscontriamo disuguaglianze di accesso e di fruizione, ovvero rinunce, impoverimenti, spese catastrofiche, inappropriatezze e asimmetrie informative. Basti considerare in modo aggregato i nuclei familiari impoveritisi per spese sanitarie out of pocket, le famiglie soggette a spese sanitarie catastrofiche e quelle ad alto rischio di impoverimento: tenendo conto delle possibili sovrapposizioni, si arriva a un aggregato spurio di quasi 1 milione e 400 famiglie interessate, su un totale di 19,9 milioni di famiglie (2015) che sostengono spese out of pocket, e con una maggiore incidenza per quelle residenti nel Mezzogiorno.
Il quarto. La spesa out of pocket non intermediata non è l’unico onere di cui si fanno carico le famiglie di fronte ai bisogni sanitari o sociosanitari dei propri componenti. Il budget che le famiglie italiane complessivamente gestiscono tra: assistenza familiare; compartecipazione ai servizi sociali; autoproduzione/mancato reddito da lavoro dei caregiver; gestione delle opportunità fiscali; valorizzazione dei permessi ex l. 104/1992 e dlgs 151/2001; nonché i trasferimenti assistenziali “informali” da privato a privato; è stimabile tra i 54 e i 61 miliardi di euro. Esso è pari a circa la metà del Fondo sanitario nazionale, maggiore di quasi il 50% alla spesa socioassistenziale pubblica del nostro Paese, e rappresenta circa 1/5 della spesa previdenziale Inps complessivamente intesa. Se le trasformazioni in atto nelle strutture familiari – invecchiamento, assottigliamento, diradamento e complessificazione delle reti primarie, ecc. – avranno l’impatto che i più ipotizzano, ciò non potrà non determinare una destabilizzazione dell’equilibrio nella struttura del sistema sanitario pubblico e privato complessivamente inteso.
Il quinto. Nell’ultima parte del capitolo 7, l’autore affronta l’ipotesi della compresenza e complementarietà delle forme integrative in funzione del consolidamento – tenuta del SSN, sottolineando che i fautori di questa linea “dovrebbero porsi obiettivi assai diversi dagli attuali”. In particolare egli auspica: la reale integratività dei fondi, finalizzati quindi ad interventi extra Lea, ovvero di Ltc, odontoiatria, protesi e spese per occhiali, ecc.; la loro territorializzazione, in un’ottica di “mutualità integrativa pubblica”; la selettività delle agevolazioni fiscali legata alla meritorietà, lì dove le iniziative private sono aperte e/o coordinate dentro una strategia pubblica; l’integrazione con il sistema pubblico nelle sue diverse articolazioni – Asl, Comuni, ecc. In realtà, tali indicazioni sono da tempo presenti nell’agenda politica – in particolare delle parti sociali – e di ricerca – basti leggere i rapporti periodici di Crea Tor Vergata, Oasi Bocconi, Gimbe, Secondo Welfare – di quanti si occupano di queste tematiche. Newsletter come Quotidianosanità.it o come Secondowelfare.it, o riviste come Politiche Sanitarie, da tempo ne danno tempestivo riscontro. Non solo, vi sono esperienze in corso – dal Trentino Alto Adige, al Veneto, all’Emilia Romagna, alla Toscana, alla Città Metropolitana di Milano, per richiamarne solo alcune – che segnalano lo sforzo di entrare, con una ottica pubblica, in questo settore, compensando le lacune normative di una legislazione nazionale incompleta e, oramai, inadeguata.
Da tutto ciò, non solo la conferma dell’invito a leggere questo libro assumendone criticamente il presupposto da cui parte, ma anche quella di ampliare la visuale ovvero, per usare una metafora oculistica, di fare i conti con l’emianopsia che colpisce la discussione attorno al presente e futuro del SSN. Nel suo interesse, ovvero nell’interesse dei tanti cittadini che grazie ad esso vedono tutelata la propria salute e che continuano a riconoscerlo come un’istituzione di valore.
Massimo Campedelli
Istituto Dirpolis,
Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa
massimocampedelli@gmail.com

1. Riportiamo la valutazione sintetica frutto di un’analisi in corso di dati ed indicatori messi a disposizione da Istat, Eurostat, Ocse, ovvero rielaborati da Cergas Bocconi, Crea Tor Vergata, Fondazione Gimbe, Secondo Welfare, ecc., o da singoli ricercatori quali Aldo Piperno, Grazia Labate, Isabella Mastrobuono, nonché dal sottoscritto.