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Disabilità e non autosufficienze, nuovi scenari sull’integrazione sociosanitaria


Da almeno una cinquantina di anni discutiamo, progettiamo, normiamo e cerchiamo di realizzare l’integrazione dei servizi sociosanitari, in particolare nel campo delle disabilità e delle non autosufficienze. Tale lungo cammino ha rappresentato un determinante nell’innovazione sociale del nostro Paese. E non solo, ovviamente.
A seconda di quale punto di vista si voglia assumere, parliamo di decenni di pratiche:
caratterizzate da compositi mix di figure molto diverse tra loro;
correlate a processi riorganizzativi istituzionali altrettanto complessi, e a volte complicati;
con l’emergere di nuovi soggetti e di nuove forme di rapporto tra la committenza pubblica, fornitori e vecchi e nuovi finanziatori privati;
interrelate all’adozione di modelli di regolazione mutuati/adattati dalla sanità – autorizzazione, accreditamento, contrattualizzazione – o a forme più “spinte” di affidamento – come la concessione;
insieme alla partecipazione attiva alla programmazione territoriale.
L’elenco potrebbe ovviamente continuare.
Le note che seguono danno per acquisita la ricostruzione di tale percorso e intendono focalizzarsi su alcuni drivers che, alla luce di quanto si percepisce oggi, potranno condizionarne gli esiti. Ci riferiamo, in particolare: alla digitalizzazione – robotizzazione – automazione; alla fragilizzazione del welfare familiare; all’ibridazione tra profit, non profit e public.

DIGITALIZZAZIONE, ROBOTIZZAZIONE, AUTOMAZIONE E NUOVI MODELLI DI SERVIZIO
La digitalizzazione può oramai essere considerata il tratto distintivo di una antropologia che vive entrambe le componenti reale/digitale come dimensioni compresenti di unica esistenza umana. La correlata strumentazione, impostasi a ritmi impressionanti nel corso di pochi anni, è parte integrante delle diverse dimensioni della quotidianità. Basti pensare alla domotica, all’ambient assisted living, alla robotica e all’intelligenza artificiale, e alle loro applicazioni sempre più automatizzate ovvero indipendenti dall’azione umana: dalla gestione e controllo della casa, agli spostamenti, alla preparazione dei pasti, al monitoraggio/cura a distanza di patologie croniche o meno, al lavoro e ai sistemi di produzione, all’acquisto di beni e servizi, alle attività finanziarie, alla sicurezza, al tempo libero, ecc.
Le componenti fondamentali delle relazioni umane sono sempre più mediatizzate, ovvero trasformate e potenziate da tastiere, smartphone, assistenti virtuali/Ai, ologrammi, schermi, ecc. Da strumenti di fruizione passiva di contenuti, gli schermi divengono luoghi di relazione e i siti e le applicazioni le relative infrastrutture. Lo stesso vale per le nostre strutture cognitive. La connessione sostituisce la memorizzazione e gli algoritmi l’organizzazione del sapere. Stiamo diventando ciò che connettiamo. Ovviamente non si tratta di una transizione indolore. Tutto ciò impone sfide sociali, etiche, giuridiche, economiche, politiche, ancora di difficile stima e qualificazione. Siamo poi di fronte a processi sempre più intergenerazionali. Se da una parte, infatti, le nuove generazioni sono composte da “nativi digitali”, dall’altra anche le meno giovani vivono inculturazione e socializzazione crescenti con la digitalizzazione. E questo grazie anche al costante miglioramento della semplicità di utilizzo, al supporto diretto ai fruitori, alla percezione di utilità da parte degli utenti stessi. Ed è proprio attorno a queste qualità – simplicity, enabling, usefulness – che si sta giocando la partita della digitalizzazione dell’assistenza sociosanitaria. Se da una parte la ricerca tecnologica, anche alla luce della influenza e trasferibilità di quanto è già componente ordinaria in campo sanitario, è arrivata a risultati assolutamente significativi, dall’altra mancano verifiche effettive dell’impatto che i prototipi realizzati possono avere sia nella condizione di vita degli assistiti che nella riorganizzazione dei modelli di servizio. I progressi tecnologici nei settori della intelligenza artificiale, della robotica, dell’ Internet of Things, delle interfacce uomo-macchina e delle comunicazioni stanno ampliando le possibilità di sviluppare nuovi modelli di servizio e/o migliorare quelli esistenti. Sul mercato sono presenti tecnologie mature e semplici per poter essere fin da ora integrate in servizi assistenziali innovativi. Tuttavia la loro applicazione richiede un cambiamento dei processi assistenziali con nuove o adattate mansioni e maggiori competenze tecnologiche da parte degli operatori e utilizzatori finali. Ciò comporta investimenti iniziali non secondari, sia nella riprogettazione dei modelli di intervento che nella riqualificazione/riorganizzazione del capitale umano presente. È convinzione di molti, al contempo, che se focalizzate sulle reali necessità degli assistiti e delle famiglie, Ict e robotica possano migliorare la qualità di vita, permettere di vivere in modo più sano e indipendente, favorire una migliore gestione delle capacità fisiche e cognitive residue relative all’invecchiamento/disabilità. Rimane la necessità di verificare sul medio lungo periodo, e con follow-up numericamente adeguati: gli ostacoli alla confidenza con le tecnologie; il loro effettivo e concreto supporto per il mantenimento dell’autonomia residua e di una vita quanto più possibile indipendente e relazionalmente significativa; l’efficacia rispetto ai rischi connessi all’ ambiente domestico (cadute, disidratazione, malnutrizione, fughe di gas, ecc…); il monitoraggio dei fattori che incidono maggiormente sull’evoluzione dello stato di salute, complessivamente intesa, al fine di progettare l’elaborazione di algoritmi ad hoc; la valutazione dell’impatto che esercitano sul livello di benessere complessivo dell’anziano nonché sul suo senso di sicurezza e di appartenenza alle reti primarie e amicali vs il rischio di un maggiore confinamento (esclusione relazionale e insufficienza di tutela e assistenza); l’effettivo supporto per i caregiver formali e informali, soprattutto nell’ottica di una presa in carico del bisogno più efficace e personalizzata.

LA FRAGILIZZAZIONE DEL WELFARE FAMILIARE
Nella comunità scientifica è ampiamente condiviso che il nostro sia un sistema di welfare a forte impronta familistica, per la rilevanza che storicamente i legami familiari hanno nella formazione, socializzazione e collocazione delle persone nella stratificazione sociale (dai percorsi educativi, a quelli lavorativi, a quelli economici e politici), per la protezione (micro) sociale che le famiglie da sempre garantiscono e per una sorta di adattamento-delega-incentivazione da parte del welfare pubblico al fai da te delle famiglie. Tale impronta peraltro caratterizza, proprio nel campo delle non autosufficienze, le trasformazioni in atto in molti altri sistemi di welfare europei originariamente meno familistici del nostro.
Nel corso di una serie di studi e ricerche è stato quantificato il budget che le famiglie italiane gestiscono in ambito sanitario e sociosanitario al fine di utilizzarlo come misuratore della loro rilevanza. Considerando le risorse proprie, i trasferimenti monetari, la valorizzazione del caregiving informale, le agevolazioni fiscali e le forme di sostegno monetario privato, la stima varia dai 52 ai 63 miliardi di euro. Tale valore è pari alla metà del Fondo sanitario nazionale, a quasi una volta e mezzo la spesa socioassistenziale pubblica, e circa 1/5 della spesa previdenziale Inps complessivamente intesa.
Ora, il complesso mondo delle famiglie italiane è però in una profonda trasformazione demografica e culturale, con scenari che fanno realisticamente prevedere che l’azienda di welfare famiglia sarà strutturalmente sempre meno in grado di svolgere i compiti garantiti fino ad oggi, per almeno quattro tendenze: l’invecchiamento, con la riduzione del differenziale di aspettativa di vita tra maschi e femmine, parallelamente all’aumento degli anni in cattiva salute soprattutto delle femmine; la semplificazione delle reti familiari primarie, con una riduzione rilevante del numero di componenti, insieme ad una contemporanea crescita delle famiglie ricomposte nelle quali i legami tra membri e tra generazioni trovano nuovi assetti; il distanziamento fisico dei suoi componenti; la ridefinizione dei comportamenti di genere e delle capacità economiche, in particolare nel rapporto tra consumi e risparmio.
Pur assumendo come presupposto ottimistico che l’attuale disponibilità di risorse e la loro distribuzione non si modificheranno in modo significativo, se la mole di attività informali non monetizzate venisse svolta da un sistema professionale, l’impatto economico sarebbe comunque quanto mai rilevante e le fonti di finanziamento sopra indicate, senza interventi strutturali, sarebbero tutte messe a dura prova. In altri termini, i bisogni/domande soddisfatti dalle famiglie secondo le soluzioni trovate fino ad oggi si riverserebbero verso altre soluzioni. Facile immaginare che in primis queste siano quelle pubbliche.

L’IBRIDAZIONE TRA PROFIT, NON PROFIT E PUBLIC
Il terzo driver degno di attenzione riguarda il processo di ibridazione che vede coinvolti gli attori a diverso titolo impegnati nel garantire l’erogazione delle prestazioni/servizi sociosanitari. Il tema non è nuovo. Di certo risulta di crescente interesse anche a livello istituzionale, come dimostra il recente rapporto di ricerca dell’Istat sulla cooperazione italiana, li dove focalizza il tema dei gruppi cooperativi composti anche da enti non cooperativi. Tenendo conto dello stato di avanzamento della Riforma del Terzo settore (L. 106/2016) e delle conseguenti evoluzioni/aggiornamenti giuridici dei singoli attori (D.lgs 117/2017), con ibridazione intendiamo due profili, da considerare senza soluzione di continuità: la costruzione/consolidamento di rapporti di controllo-partecipazione societaria diversamente correlati tra attori non profit-profit-public, di fatto antecedenti la Riforma; l’arrivo di nuovi/riconvertiti attori che nel mercato sociosanitario pubblico (outsourcing) e/o privato (out of pocket o intermediato), sostanzialmente presidiato dalla cooperazione sociale, sono ora in grado di assumere un profilo più marcatamente imprenditoriale (le associazioni, le fondazioni, le cooperative sociali – enti non profit di Terzo settore che divengono imprese sociali), ovvero trasformarsi da soggetti profit a soggetti non profit (le società di capitali – enti profit che divengono imprese sociali di Terzo settore e di conseguenza non profit), grazie a quanto innovato (la norma originaria era la L. 118/2005 e il D.legs. 155/2006) in tema di impresa sociale (D.lgs 112/2017), sulla scia della normativa sulle società benefit e le start up innovative (D.L. 179/2012 e D.L. 3/2015), ovvero alla “dilatazione giuridica del perimetro dell’impresa sociale”. In termini sintetici, il riordino della disciplina della impresa sociale: rende inequivocabile la appartenenza al Terzo settore dei soggetti privati che adottino tale qualifica; stabilisce l’ampliamento dei settori di attività in cui è possibile operare così come i profili dei lavoratori svantaggiati inseribili; interviene in materia di disciplina fiscale e, più in generale, sulle modalità di governo. Tenuto conto dei vincoli stabiliti dalla norma, delle incertezze sulla sua implementazione, delle differenze di trattamento fiscale a seconda della forma giuridica originaria e del tipo di partecipazione finanziaria, ovvero della cautela che alcuni players interessati sembrano mantenere, il punto su cui porre l’attenzione riguarda la vasta platea di soggetti che, adottando tale qualifica, risultano potenzialmente in grado di partecipare ai mercati dei servizi sociosanitari.
Alcune stime sul potenziale dell’imprenditoria sociale in generale, e su quello sociosanitario in particolare, sono al riguardo, particolarmente significative. In generale, considerando l’insieme composto dalle cooperative sociali e dalle imprese sociali ex lege, dalle organizzazioni non profit market oriented, dalle imprese for profit operanti nei settori dell’impresa sociale, nonché dalle start up innovative a vocazione sociale e dalle società benefit, arriviamo ad un aggregato di imprese dell’ordine delle 100.000 unità. Di queste, 2/3 sono profit e poco più di 1/10 soggetti non profit non imprese sociali. In altri termini, i 4/5 del potenziale risulterebbe coperto da attori che fino ad ora non hanno assunto la qualifica di imprese sociali. Se consideriamo invece il solo sociosanitario, la stima può essere costruita nel seguente modo: circa 8500-9000 sono le cooperative sociali; all’incirca 500 le imprese sociali ex lege; altre 3500 le non profit market oriented; e almeno 27.000 le imprese profit che secondo il Censimento Istat 2011 sulle imprese operano nel sanitario e nell’assistenziale. In pratica, secondo questa proxy, a fronte di circa 9-10.000 imprese sociali operanti nel sociosanitario (coop sociali + ex lege), risulterebbero altre 30.000 imprese (profit e non profit market oriented) potenzialmente in grado di assumere la qualifica di impresa sociale. Quindi i ¾ del potenziale imprenditoriale verrebbe coperto da attori che fino ad ora non hanno assunto la qualifica di imprese sociali.

PIÙ CHE DELLE CONCLUSIONI …
Le riflessioni sviluppate si sono concentrate sui servizi sociosanitari e hanno preso in considerazione solo marginalmente la rilevanza che riveste, nel nostro Paese, il welfare monetario. A livello centrale, esso si traduce in trasferimenti assistenziali e in permessi lavorativi gestiti in buona parte dall’Inps, nonché in agevolazioni fiscali di diversa natura. Mentre, in misura minore, in forma di sussidi/buoni erogati dagli Enti locali. Basti pensare che, nonostante quanto spesso si sente affermare, la spesa complessiva per protezione sociale (previdenza, sanità, assistenza) tra il 2009 e il 2015 non è diminuita bensì aumentata, seppur leggermente, di 14 miliardi di euro pari al 3,2%. Ciò che risulta significativo è stato l’incremento dei trasferimenti monetari, sia pensionistici (+ 6 miliardi di euro) che assistenziali (+ 10 miliardi di euro), a fronte di un’altrettanto significativa riduzione dei servizi assistenziali in natura di quasi il 40% (-5 miliardi di euro rispetto ai 13 del 2009), e di una sostanziale stabilizzazione della spesa sanitaria. Riconfigurare il rapporto monetario/servizi – o cash/in kind – risulta, come ampiamente dimostrato nella vicenda italiana, particolarmente difficile. Proposte di questo tipo, anche negli ultimi anni, ne sono state avanzate diverse. Si tratta di un determinante – in negativo – che, soprattutto se non si fermerà la propensione allo scambio politico consenso/welfare monetario confermato anche dalla ultima Legge di Bilancio 2019, renderà non solo più difficile affrontare in modo positivo i trend sopra indicati, ma la tenuta dello stesso sistema di welfare, complessivamente inteso, sarà messa a dura prova.
Massimo Campedelli
Professional affiliate
Istituto Dirpolis,
Scuola Sant’Anna, Pisa
massimocampedelli@gmail.com

La versione completa del contributo è consultabile
all’indirizzo www.ricercaepratica.it





La diversità di Informazioni sui Farmaci
Chiude dopo 41 anni Informazioni sui Farmaci (IsF). Fondata da Albano Del Favero per rispondere alla domanda antica, ma sempre nuova: “È possibile una informazione sul farmaco che garantisca ad un ‘bene di mercato’ una identità di bene comune, di salute pubblica?” La risposta allora fu “Sì!” e si è mantenuta nel tempo.
IsF è stato uno strumento di ricerca, non solo sul farmaco, ma sui contesti concreti nei quali è prescritto e utilizzato. Il lavoro di IsF è stato, per indipendenza e pertinenza, il risultato di una ricerca ‘collettiva’, rappresentata da medici, farmacologi, farmacisti, infermieri, pazienti che hanno condiviso un progetto di salute come diritto universale di cittadinanza. IsF ha anche contribuito alla fondazione e alla vita della International Society of Drug Bulletins.
Uno strumento diverso, di dialogo, per ottemperare ad un diritto inevaso con dignità. IsF chiude, ma ce ne sarebbe ancora un gran bisogno. Red.
Non c’è dubbio che l’informazione più rilevante di questo numero è quella sintetizzata nel titolo, e che, esplicitata, può essere così tradotta: questo è l’ultimo numero di Informazioni sui Farmaci. Ricordarne, nel dettaglio, la storia – le tappe, le cose fatte, i cambiamenti, i protagonisti, gli interlocutori – rischierebbe di avere il sapore di un necrologio (alla fine noioso, e inutile). Ci piace riassumere il cammino nei termini di una parabola che continua ad essere viva, non solo come memoria, ma come attualità, e futuro. L’ipotesi e il bisogno di una voce indipendente e dialettica rispetto a quelle istituzionali nascevano proprio quando meno poteva sembrare ce ne fosse bisogno, perché si era nel pieno delle grandi riforme ‘civili’ della realtà italiana, e alla vigilia della istituzione formale del SSN. Il gruppo di lavoro che dava origine al progetto IsF era radicato, in diversi ruoli e con competenze rappresentative dei tanti aspetti dell’universo del farmaco, nella non facile quotidianità di una ricerca-sperimentazione di una sanità che fosse espressione di democrazia sostanziale: quella cioè che interpreta la Costituzione come un protocollo di ricerca per un progetto che deve essere sempre in sperimentazione e verifica. All’entusiasmo era necessario associare la lucidità del disincanto. Mentre si esprimeva a livello internazionale con la lungimiranza provocatoria della politica OMS dei farmaci essenziali (1977; IsF sarebbe divenuto una fonte assolutamente originale di informazione-promozione di questo orizzonte), e si era alla vigilia in Italia della L. 833 (istitutiva del SSN), e della Dichiarazione di Alma Ata (sempre 1978) sulla salute come diritto universale, la medicina si era già trasformata in uno dei ‘poteri’ più diffusi, e in crescita, della società, e il farmaco ne era l’indicatore più diretto e prognostico. Informare...in Italia e nel mondo. Per non assuefarsi alla ‘saggezza’ delle enunciazioni e dei principi, era importante esigerne e verificarne la coerenza nei fatti, e la capacità di avere il futuro come criterio di riferimento. Il cammino che ora si chiude ha documentato, anno dopo anno, che il tempo che si vive e si prospetta è totalmente altro. IsF ha cercato di mantenere lo sguardo disincantato, mai stanco, delle origini. Giudicare se ci si è riusciti o meno non può essere, per definizione, compito nostro. Si può persino dire che, in un mondo tanto cambiato, sono necessari nuovi inizi, perché una discontinuità concreta può essere espressione di una dialettica non finta: su cui non tanto discutere, quanto da sperimentare nel confronto con realtà nuove, da parte di attori a misura delle nuove sfide, per strumenti, linguaggi, percezione del futuro, età anche anagrafica. Si è pensato in questo senso di ‘salutarsi’ con/da coloro con cui si è camminato in modo tranquillo: con un numero come gli altri, che possa semplicemente ricordare, con i suoi fili conduttori, il perché e il come di una storia nella quale ci siamo identificati.
1. Il primo, necessariamente un po’ atipico, di questi fili lo si propone come ‘cuore’ (nel senso più emotivo e concreto di questo termine...) dell’editoriale: riquadro-pagina che ha come protagonisti delle persone, per renderle visibili e ringraziarle, pensandole come rappresentanti di tutte quelle che hanno reso possibile, con tutta la loro diversità una storia così lunga, da essere, concretamente e simbolicamente, a cavallo tra secoli e millenni.
2. Il secondo filo conduttore è quello più classico: la bussola che esplicita tuttavia le sue componenti, reciprocamente complementari: – la ‘novità’ di molecole-farmaci; – un promemoria autorevole di quale è la traduzione concreta di un termine come breakthrough, che è diventato così simbolico degli strettissimi ambiguissimi legami tra le tante evidenze e rilevanze (scientifico-cliniche e di mercato) che guidano l’informazione sui farmaci e la sua (in)dipendenza;
– la cronaca di quanto la letteratura ‘importante’ ci racconta, da dentro e da fuori del mondo del farmaco, o addirittura della sanità: è una bussola molte volte più importante di qualsiasi ‘evidenza di efficacia, costo, sicurezza’, perché è un promemoria delle sperimentazioni di vita di cui facciamo parte, con o senza la possibilità di dare/togliere il nostro ‘consenso informato’ all’uso non solo dei nostri dati, ma delle nostre storie, che siano declinate in termini di malattia o di dignità, al presente o al futuro.
3. Il terzo è un contributo (e siamo particolarmente contenti della presenza del suo autore su questo numero) sui prezzi dei farmaci: è una delle aree più di frontiera: per l’importanza ovvia, ma forse ancor di più perché segna più di ogni altra la frontiera tra “un tempo antico”, quando il farmaco, come la sanità, apparteneva all’area del diritto alla vita delle persone, ed un tempo-di-oggi-per-sempre (o no?) in cui il diritto è stato trasformato in una variabile dell’economia, e non ha più perciò a che fare con garanzie di persone, ma solo con algoritmi che definiscono la competitività delle merci. Quale potrà essere, e per chi, e quanto capace di indipendenza, e da quali poteri, una bussola di questo tipo?
4. Due presenze internazionali sono particolarmente benvenute per un IsF che si congeda. Toccano due temi centrali per gli incroci tra cultura, tecnologia, politiche istituzionali, ruoli da giocare nella società civile. Non hanno bisogno di commenti. Di fatto propongono, certificando entrambi con la loro autorevolezza, la ‘fine’ di mondi e strumenti, la necessità assoluta di un tempo di nuove generazioni profondamente indipendenti dal rispetto troppo rigidamente obbediente all’esistente, e così ben radicate nelle rispettive responsabilità professionali ed istituzionali (farmacosorveglianza, informazione) da proporre cammini che si definiscono camminando, misurandosi sulla coerenza con i bisogni e le domande inevase.
5. L’ultimo filo è il dialogo con un medico di base, che ci ha accompagnato negli ultimi tempi alla scoperta degli scenari più caratterizzati da saperi e tecnologie che appartengono a, e promettono, futuri dove si possono combinare le strategie più personalizzate e la delega più fiduciosa delle decisioni alla saggezza artificiale delle macchine.
Questo viaggio nel futuro si affida a due ‘dediche’ che rimandano ad immaginari rigorosamente non ‘scientifici’. Vorrebbe essere il nostro modo di dire “grazie!” a tutte/i, con l’augurio di non dimenticare mai che gli interrogativi sono importanti e dirimenti quanto le risposte. Convinti anche, come la pagina-memoria che fa da ‘cuore’ a questo saluto redazionale, che non c’è indipendenza più affidabile che quella garantita dal dialogo sempre rinnovato tra persone: che fanno della loro infinita diversità un’occasione di reciproco ascolto: reciproco regalo di guardare al futuro come una ricerca del diritto di essere, tutte/i, soggetti alla pari di una vita con un pizzico in più di dignità.
Gianni Tognoni
Direttore ISF
Daniela Zanfi 
Direttore responsabile ISF,
Servizio Informazione e Documentazione
Scientifica, F.C.R. Reggio Emilia
Tratto da: IsF 2018; 42:1-3.




Diritti dell’infanzia in Italia
È stato presentato il 27 marzo a Torino il Rapporto “I diritti dell’infanzia e dell’Adolescenza in Italia:
i dati regione per regione 2018”, curato dal Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (CRC). L’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” IRCCS, attraverso il Laboratorio per la Salute Materno Infantile, è parte del gruppo CRC sin dalla sua creazione
Red.

Presentati i dati regione per regione del Gruppo CRC. Cinque raggruppamenti tematici definiti, declinati per ogni singola regione d’Italia.
In Italia, quasi 1/3 dei bambini e degli adolescenti sono a rischio povertà ed esclusione sociale; gravi sono i divari regionali: in Sicilia sono il 56%, in Calabria sono il 49%, in Campania il 47%, in Puglia il 43%. All’opposto, Friuli ed Emilia-Romagna (circa 1 bambino su 7, ovvero rispettivamente il 14,9% e il 15,8%) poi Veneto (17,5%) e Umbria (20%). Sono 2.156.000 i bambini e ragazzi che oggi in Italia vivono in condizioni di povertà relativa; più di un minorenne su 5. Il Rapporto fotografa nel dettaglio l’incidenza in ciascuna regione, indicando quanti vivono, e dove, molto al di sotto della media nazionale. In questo contesto l’Italia è il secondo paese più vecchio del mondo, caratterizzato da bassa natalità in quasi tutte le regioni, con livelli preoccupanti in Liguria e Sardegna, dove nascono 6 bambini ogni mille abitanti (6,1). Bolzano invece stacca di 3,5 punti la media italiana (10,2 vs 7,6).



Il Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (CRC) è un network attualmente composto da 96 soggetti del Terzo Settore che da tempo si occupano attivamente della promozione e tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ed è coordinato da Save the Children Italia. Al fine di facilitare la comprensione della condizione dei minori nei diversi territori, quest’anno si è deciso di sperimentare una nuova pubblicazione con l’obiettivo di fornire una fotografia regione per regione in grado di offrire una panoramica sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza nei vari territori, presentata oggi a Torino: “I diritti dell’infanzia e dell’Adolescenza in Italia: i dati regione per regione 2018”. La pubblicazione restituisce una fotografia su base territoriale realizzata a partire dai dati disponibili dalle fonti ufficiali disaggregati su scala regionale.
Come evidenziato da sempre con i Rapporti CRC, anche dalla lettura di questi dati emerge una forte differenziazione territoriale che impone una riflessione a livello nazionale e locale: come recentemente proposto anche dal Comitato ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nelle proprie raccomandazioni all’Italia occorre “portare avanti misure urgenti per rispondere alle disuguaglianze regionali rispetto all’accesso al sistema sanitario, alla lotta alla povertà, alla garanzia di alloggi dignitosi, inclusa la prevenzione di sgomberi, allo sviluppo sostenibile e all’educazione in tutto il Paese”. Questo primo lavoro di ricognizione dei dati esistenti permette anche di evidenziare le lacune del sistema nazionale e regionale di monitoraggio e di raccolta dati sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza. I dati sono suddivisi in schede regionali e in cinque raggruppamenti tematici definiti: 1) Dati demografici, 2) Ambiente familiare e misure alternative, 3) Educazione, gioco e attività culturali, 4) Salute disabilità e servizi di base, 5) Povertà e protezione.
Save the Children
Ufficio Stampa: Marco De Amicis
Tel 338 6817499
mail@marcodeamicis.it




Una piccola vittoria contro la pubblicità non veritiera e ingannevole
Avevamo segnalato al Ministero della Salute nell’aprile del 2018 la pubblicità rivolta ai cittadini e agli operatori sanitari dell’integratore Equazem® prodotto e distribuito dalla ditta NAMED avendo riscontrando le condizioni di informazione non veritiera e ingannevole (vedi R&P: 201 pag. 111-3; 202 pag. 174; 204 pag. 283-4). La segnalazione era accompagnata da un dossier informativo con appropriata documentazione scientifica a sostegno della richiesta di valutazione.
Il Ministero ha trasmesso la richiesta all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che dapprima ha archiviato la richiesta poi, a seguito di una nostra replica, ha proceduto al riesame. L’Autorità ha deliberato ancora l’archiviazione, ma con differenti motivazioni. Diversamente dalla prima delibera “archiviazione per manifesta infondatezza” il riesame ha riconosciuto che non vi fosse, sulla base degli studi disponibili una dimostrazione di un nesso di tipo causa-effetto tra l’assunzione dell’integratore e il miglioramento della capacità di lettura. Così come nella comunicazione commerciale destinata ai genitori che la carenza di nutrienti, tra cui gli acidi grassi polinsaturi, possa portare a iperattività, deficit di attenzione, difficoltà di relazione, disturbi della sfera emotiva e problemi dell’apprendimento. L’archiviazione dell’istanza è motivata dal fatto che nel frattempo le schede con i risultati degli studi, nonché la sezione I bambini e i disturbi dell’apprendimento erano state espunte dal materiale divulgativo da parte del produttore. Così come era cessata “la diffusione della comunicazione commerciale destinata al corpo professionale e di averla rimossa anche dal sito internet” da parte del produttore.
…un piccolo e faticoso successo nell’interesse dei cittadini. Un esempio della necessità di un’attenzione maggiore e permanente da parte degli organi preposti e dagli operatori sanitari.
Maurizio Bonati, Antonio Clavenna
maurizio.bonati@marionegri.it







Partecipare come protagoniste: donne nella ricerca

La manifestazione STEM in the City è un’iniziativa promossa dal Comune di Milano – in collaborazione con importanti realtà del settore pubblico e privato e il sostegno delle Nazioni Unite per diffondere la cultura delle STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), rimuovere gli stereotipi culturali che allontanano le ragazze dai percorsi di studio nelle materie tecnico-scientifiche, ridurre il divario di genere nelle carriere e nelle professioni STEM (www.steminthecity.eu).
Nell’ambito di STEM in the City, il Laboratorio di Ricerca per il Coinvolgimento dei Cittadini in Sanità dell’Istituto Mario Negri ha organizzato per la giornata del 16 aprile un percorso di conoscenza del mondo della ricerca al femminile dal titolo: “All You Can Ask all’Istituto Mario Negri”. Una opportunità di incontrare e fare domande a ricercatrici di diverse discipline, cioè un vero e proprio cammino multi-disciplinare per confrontarsi con chi fa ricerca. È stato possibile conoscere e parlare con diverse figure di ricercatrici [e ricercatori], espressione delle diverse competenze presentate tramite un poster che descrive le ricerche in corso. Il pubblico arrivato in Istituto, tra cui molti studenti di scuola superiore, si è fatto coinvolgere nel percorso. Tante le domande dei partecipanti per ascoltare le storie e conoscere meglio cos’è la ricerca.
Red.