RECENSIONI


Quando servono, ma non solo farmaci

“Psicofarmaci in età evolutiva”, il nuovo lavoro di Maurizio Bonati, che vede la partecipazione come autori anche di altri prestigiosi colleghi del campo delle neuroscienze, è un’eccellente guida pratica per chi si approccia all’utilizzo degli psicofarmaci in età evolutiva, ma anche un prezioso strumento di consultazione per affermati professionisti neuropsichiatri che quotidianamente dibattono scelte e opzioni terapeutiche.
Come dichiara lo stesso autore nella presentazione “il lavoro che ha determinato la realizzazione di questa guida è stato impostato come un esercizio continuo di aggiornamento collegiale delle evidenze disponibili”.
È proprio tale principio dell’evidence based associato a “un disegno strategico multimodale non statico ma in continua e necessaria rivalutazione” il continuum di tutta l’opera che non perde mai di vista la prospettiva “life span” tipica di chi affronta in modo corretto e scientifico le problematiche comportamentali dell’età evolutiva.
Una guida pratica che non è semplicemente un condensato di colonne e tabelle con dosaggi e titolazioni di farmaci ma sottolinea al clinico l’importanza di fattori ambientali e finestre evolutive sullo sviluppo di funzioni e competenze complesse secondo un moderno approccio alle neuroscienze.



Il libro è pensato e costruito in due parti ben definite partendo da un’analisi del contesto che analizza i percorsi terapeutici dei più importanti disturbi psichiatrici e focalizza l’attenzione sulla prescrizione off-label che spesso incute timore sia ai medici specialisti, sia ai genitori che tuttavia ormai sempre più frequentemente mostrano competenze e richiedono al medico delucidazioni e approfondimenti inerenti la somministrazione di psicofarmaci per i loro figli. Una finestra su principi di psicofarmacologia e sul profilo farmacocinetico arricchisce di contenuti la prima parte del lavoro.
Le schede monografiche con le indicazioni terapeutiche, le formulazioni, il meccanismo d’azione, le precauzioni d’uso, gli effetti indesiderati, le controindicazioni, le interazioni e i sintomi da sovradosaggio sono infine un ottimo strumento pratico quotidiano di rapida consultazione riassunto nella seconda parte della guida.
Un lavoro metodologicamente ben fatto in un panorama, come quello italiano, storicamente poco accogliente nei confronti di manuali e guide pratiche che indirizzano all’utilizzo di psicofarmaci in età evolutiva. Al contrario un approccio globale, senza preconcetti culturali, in cui il farmaco diventa uno strumento utile di supporto a percorsi psicoterapici individuali e familiari è sicuramente la strada più corretta da seguire. Un’approfondita conoscenza del complesso universo farmacologico permette una serena gestione del paziente e dei suoi familiari. In tal senso la guida diventa quindi uno strumento fondamentale per il lavoro quotidiano nella gestione delle patologie psichiatriche dell’età evolutiva.
Luigi Mazzone
Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile,
IRCCS – Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma
gigimazzone@yahoo.it




Per il paziente e non per il brevetto

In gennaio 2008 ho avuto la possibilità, ospite di Silvio e Anny Garattini nella loro casa in Umbria, di conoscere una parte di Italia in cui non ero mai stato e di visitare alcuni posti spettacolari vicino a Montefalco. La visita alla chiesa di S. Francesco è stata particolarmente memorabile, come del resto lo sono stati gli incontri con le molte persone che si fermavano a salutare affettuosamente i miei ospiti mentre passeggiavamo per le strade della città. Come mai il direttore di un istituto di ricerche farmacologiche è riconosciuto e apprezzato da così tante persone?
Mentre ritornavamo a casa Anny Garattini mi raccontava che la notorietà e l’apprezzamento che Silvio Garattini riceve dipendono dal ruolo che uno scienziato si attribuisce, “se sostenuto da fondi pubblici ha l’obbligo di informare il pubblico sul lavoro che svolge”. Silvio Garattini lo fa scrivendo regolarmente su quotidiani e riviste e intervenendo alla radio e televisione: racconta e commenta i reali avanzamenti della ricerca e della pratica medica, ma riferisce anche di ricerche che non rispondono ai reali interessi del pubblico. Focalizzare e indirizzare l’attenzione su questi argomenti è stata sempre una caratteristica dei ricercatori dell’Istituto Mario Negri, che Silvio Garattini insieme a un gruppo di giovani colleghi fondò nel 1961.
Di ritorno a casa chiesi se era mai stata scritta la storia dell’Istituto mettendo in rilievo l’imperativo etico che l’aveva guidato verso una ricerca farmacologica che fosse “orientata al paziente e non al brevetto”. Alla risposta negativa mi sono permesso di suggerire, vista la documentata ed estesa corruzione e inefficienza di ricerche modellate per rispondere a richieste commerciali per ottenere il brevetto, che sarebbe bello poter leggere una storia dell’Istituto. Rappresenterebbe un segnale morale di cui si sente il bisogno, un resoconto dell’Istituto Mario Negri renderebbe evidente che ci sono alternative al modello di ricerca e valutazione di nuovi farmaci interessato solo al brevetto.
Il giorno dopo, Silvio ed io abbiamo tenuto a Roma una relazione al Festival della Scienza. Il nostro intervento in sintesi sosteneva la necessità di un ripensamento su come i farmaci vengono valutati nella ricerca clinica. È stato in quella occasione che una storia dell’Istituto ha iniziato a frullare nei nostri cervelli. Oltre alle risorse per la documentazione bisognava essere sicuri che ci fossero degli analisti esperti che scrivessero sia in inglese che in italiano. Sette anni dopo il risultato è questo eccellente libro scritto da Donald Light e Antonio Maturo.
Sin dalla fondazione l’Istituto ha avuto una ben precisa missione:
Fare ricerca di qualità, riconosciuta internazionalmente per migliorare la salute delle persone, basata su una scienza indipendente, trasparente, e usata senza alcun vincolo per educare medici e pazienti sulle modalità più opportune per rispondere ai bisogni dei pazienti.
Questa missione ha prodotto più di 12.000 articoli pubblicati su riviste scientifiche, circa 5000 articoli pubblicati su giornali e riviste rivolte al grande pubblico e un sito: PartecipaSalute, che con la sua newsletter e attività organizzatrice favorisce l’incontro e la collaborazione tra associazioni di medici, pazienti, infermiere/i con i ricercatori, per discutere questioni fondamentali di salute pubblica e per rendere i pazienti più consapevoli e partecipi.



L’orientamento dell’Istituto verso la comunità riflette anche la strategia con cui guarda ai trial clinici che sono visti come un mezzo per rendere medici e pazienti consci dell’incertezza sugli effetti dei trattamenti e di conseguenza assumere una responsabilità collettiva nel scegliere il trattamento migliore.
La ricerca è un’ espressione dell’assistenza. Per essere clinicamente rilevante, non può costituirsi né svilupparsi come un’attività parallela, separata, occasionale, come è invece il caso per le sperimentazioni a orientamento commerciale. Il più grande rischio nella medicina è di dissociare la pratica clinica dalla ricerca che mira a valutarne l’efficacia. La ricerca sui trattamenti deve essere parte integrante della “normale assistenza”.
In una dichiarazione pubblicata da Lancet poco prima della sua morte prematura Alessandro Liberati, un membro senior del personale dell’Istituto, ha presentato la questione in questi termini: “Ho avuto in più occasioni l’opportunità di constatare la dissociazione tra coloro che producono ricerca e i bisogni dei pazienti. Come ricercatore ho avuto anche la responsabilità di decidere sulla distribuzione di fondi per la ricerca. Negli ultimi dieci anni sono stato anche paziente, con un mieloma multiplo e mi sono trovato a dover affermare pubblicamente che molte delle incertezze che affrontavo all’inizio della malattia erano evitabili. Se vogliamo una maggiore disponibilità di informazioni rilevanti bisogna rinnovare la strategia gestionale della ricerca. Non ci si può aspettare che i ricercatori lasciati a loro stessi risolvano questa contraddizione. I ricercatori sono presi da interessi competitivi – professionali e accademici – che li portano a competere per i fondi dell’industria farmaceutica. Per una nuova strategia gestionale una componente essenziale potrebbe mettere insieme tutti i portatori di interesse, iniziando da una analisi accurata della ricerca in corso indipendente”.
Nel 2009, Paul Glasziou ed io abbiamo stimato che a livello mondiale più dell’85% dei massicci investimenti nella ricerca farmaceutica e medica si poteva considerare sprecata. La nostra analisi ha portato alla preparazione di una serie di articoli su Lancet, in cui si analizzavano le fonti degli sprechi (www.researchwaste.net). La pubblicazione introduttiva della serie suggeriva di sviluppare sistemi di supervisione e regolazione per proteggere l’integrità del processo scientifico. Ci si riferiva specificamente all’Istituto Mario Negri come ispiratore di un modello sottolineandone le caratteristiche più esemplari:
1. indipendenza istituzionale ed economica da governi, industria e accademia.
2. Assoluta trasparenza e responsabilità nel pianificare, realizzare e pubblicare la ricerca: dalla ricerca di base ai trial clinici; dall’epidemiologia ai progetti ambientali e di valutazione tecnologica.
3. Rifiuto di brevettare le scoperte dell’Istituto.
4. Controllo esclusivo di tutte le fasi della ricerca e di tutti i dati dei trial clinici, siano essi sponsorizzati dall’Istituto o dall’Industria o da qualsiasi altro attore.
5. Promozione della ricerca come componente integrale della sanità, che si realizza attraverso l’attivazione di reti di ospedali e medici interessati e impegnati a partecipare alla ricerca su base volontaria e per lunghi periodi.
6. Sviluppo di grandi trial clinici basati su/con popolazioni di pazienti che siano i reali destinatari dei trattamenti che sono oggetto di valutazione, così da far crescere la coscienza che la sperimentazione è componente “normale” di un’assistenza responsabile, e un mezzo efficace di formazione professionale permanente.
7. Promozione di politiche pubbliche che sostengano la ricerca per i bisogni inevasi, piuttosto che per la commercializzazione e i profitti.
8. Controllo (monitoraggio) della trasferibilità dei risultati della ricerca nella pratica clinica, approfittando e utilizzando le reti dei professionisti sopra ricordate.
9. Promozione continua di alfabetizzazione scientifica attraverso i mass media, educando il pubblico sui principi e sulle realtà della ricerca farmacologica e farmaceutica.
Questi principi sono presentati in modo esplicito nella “Carta dei valori e condotta etica” dell’Istituto Mario Negri.
Regalandoci Good Pharma: The Public Health Model of the Mario Negri Institute, Donald Light e Antonio Maturo aiuteranno il mondo a vedere come ci può essere un rinascimento nella ricerca orientata, sopratutto, al servizio dei pazienti e del pubblico.
Iain Chalmers (Oxford, agosto 2014)
ichalmers@jameslind.net

Traduzione a cura di Aurora Bonaccorsi
aurora.bonaccorsi@guest.marionegri.it




Uguaglianza e pari dignità sociale

C’è una immagine che, leggendo questo lavoro, mi è venuta alla mente. Era una domenica mattina di diversi anni fa, al monastero di Camaldoli di Arezzo, durante una messa celebrata nel salone oggi adibito a bar e sala conferenze (la chiesa era in ristrutturazione). A messa iniziata, poco prima della consacrazione, passando per l’antico chiostro entra un monaco, saio bianco da lavoro e cuffia di lana in testa, con una grossa cesta sotto braccio piena di primizie raccolte nell’ orto. Il monaco depone la cesta e si mette la stola (senza togliersi la cuffia...), raggiunge l’altare e partecipa alla consacrazione e comunione. Non aspetta la fine della celebrazione, ripone la stola, riprende la cesta e ritorna alle sue faccende, probabilmente per portare in cucina il raccolto così da metterlo a disposizione per il pranzo domenicale da consumare di lì a poco.
Per rimanere nella metafora, questo libro è un po’ come la cesta piena di variegate primizie del nostro monaco (qui figura collettiva, fatta di operatori pensanti e progettuali che mettono sulla tavola del dibattito pubblico i loro risultati, tutti provenienti dallo stesso orto). Vi troviamo la storia di un sistema di sviluppo territoriale nato a Messina pochi anni fa (il monastero, con le sue articolazioni), con tanto di algoritmi che misurano lo sviluppo del capitale sociale prodotto, risorsa chiave per la crescita della coesione sociale (un tempo si sarebbe parlato della bonifica delle zone paludose o del dissodamento di quelle impervie). Così come il percorso di deistituzionalizzazione dall’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Barcellona Pozzo di Gotto di un cospicuo numero di internati (i pellegrini che trovavano ospitalità nel monastero per poi ripartire nei loro tragitti personali di vita), con tanto di sistema di valutazione di esito imperniato su una rivisitazione/adattamento della classificazione Icf (quella adottata dall’Onu per le disabilità). E ancora la storia di una rete fortemente interconnessa di imprese sociali (i laboratori e gli appezzamenti del monastero dove lavoravano monaci e laici, comprese le foresterie e le mense), o di economia civile nell’accezione della cosiddetta scuola bolognese (S. Zamagni, L. Bruni, L. Becchetti e altri ancora) a cui i nostri si ispirano, con le strategie progettuali – leggi investimenti di centinaia di migliaia di euro – nel campo delle energie alternative marine e terrestri, della misurazione e certificazione della qualità delle acque per la coltura ittica, dei percorsi cultural-ambientali, ecc. Troviamo, infine, il sapere colto che si interroga su temi quali l’idea di sviluppo come libertà, i fondamenti costituzionali del welfare di comunità, il diritto a prendersi cura o, in chiave critica, il reddito di cittadinanza (un tempo i monaci che scrivevano di teologia nella biblioteca o nelle loro celle, dialogando con i classici dell’antichità e che qui sono i classici contemporanei dal nome di A. France, W. Pareto, A. Sen, M. Nussbaum, ecc.).
Questo libro, detto altrimenti, è una rendicontazione riflessiva sullo stato di avanzamento di un complesso – e per il lettore monospecialistico certamente complicato, vista la notevole variabilità di contenuti e linguaggi – work in progress collettivo, dove pazienti, operatori sociali e sanitari, imprenditori, tecnici progettisti, operatori della finanza, operai altamente qualificati, responsabili delle istituzioni pubbliche e private, familiari – tutti con la cuffia in testa pronti per tornare al loro orto … – in una dinamica di relazioni face to face come on line, partecipano ad un laboratorio di ripensamento e di ricostruzione delle interdipendenze tra economia, welfare, salute e ambiente. Da sottolineare che questa sfida avviene in un contesto particolare come lo Stretto di Messina, cioè in quel Mezzogiorno sempre più lontano dal resto del Paese secondo l’ultimo rapporto Svimez, o, per dirla con Carlo Borgomeo, sempre più equivocato1.
Un libro, date le caratteristiche, in quanto tale difficilmente recensibile. Al di là della rappresentazione metaforica proposta, ogni pezzo di questo puzzle necessita di una lettura a sé, il che poi alla fine porta a scriverne praticamente un secondo …
A meno che non si scelga un punto di vista particolare attraverso il quale, analizzando uno dei pezzi del puzzle, si cerchi di collocarlo e di dare ragione dell’insieme. La scelta che qui proponiamo ricade sulla deistituzionalizzazione dei pazienti dell’Opg.
Il lettore di R&P è certamente a conoscenza che dopo una campagna non facile (www.stopopg.it) il Parlamento ha approvato a maggio dello scorso anno una norma che obbliga la chiusura di queste istituzioni totali e la deistituzionalizzazione degli internati. E forse saprà pure che, nonostante essa preveda tempi definiti - entro il 31 marzo 2015 -, a tutt’oggi molte regioni sono inadempienti, al punto che gli stessi promotori della campagna ne stanno chiedendo il commissariamento.
Ecco allora che la valutazione (capitolo 5, di Liliana Leone e Lucia Martinez) sull’esperienza realizzata nel Distretto sociale evoluto di Messina (…il nome dato dai monaci al loro monastero... ) con il progetto Luce è Libertà, attraverso il quale si sta attuando il processo deistituzionalizzante parziale di Barcellona Pozzo di Gotto2, assume una particolare rilevanza, per le motivazioni (accountability come tratto distintivo del sistema imprenditorial-sociale, unica e vera risposta alle contaminazioni corruttive in corso) come per il metodo.
Grazie ad essa:
– si dimostra che quella scelta è realizzabile;
– se ne può misurare l’esito in termini di autonomia e benessere per le persone interessate, ovvero in termini di apprendimento per i servizi/ operatori coinvolti e di miglioramento della qualità delle relazioni per la comunità;
– si ottengono non solo risultati di sostenibilità/convenienza economica, ma con la riconversione delle risorse disponibili si permettono investimenti per lo sviluppo imprenditorial-sociale, con cui creare lavoro buono anche per chi sta ricostruendo la sua autonomia, dopo anni di carcere e ospedale psichiatrico tra loro pesantemente intrecciati;
– si mettono in rete i risultati, gli approcci e le metodologie utilizzati in funzione della loro trasferibilità e della stabilizzazione di sistemi di welfare duraturi.
L’impianto metodologico si sviluppa in due tempi (maggio 2010-novembre 2012 in permanenza in opg; giugno 2012-gennaio 2013 usciti dall’Opg), con una indagine longitudinale sulle condizioni di vita di un campione di 56 persone, tutti maschi, età media di 45 anni.
Lo scopo è quello di analizzare, grazie a strumenti quantitativi opportunamente adattati (HoNOS-secure e ICF), le modificazioni intervenute nel gruppo di pazienti in termini di:
– miglioramento delle condizioni di benessere dei beneficiari nelle aree della socialità, dell’abitare, del lavoro e della salute;
– aumento dei gradi libertà (capacitazioni) delle persone seguite;
– efficacia del meccanismo del paracadute in presenza di fasi di crisi, con l’attivazione di reti locali istituzionali del privato sociale e familiari;
– riduzione della recidiva, ovvero minore reingresso in opg o in altri istituti penitenziari.
A completamento, una serie di interviste qualitative agli operatori del progetto, insieme ad alcuni beneficiari, finalizzate a meglio comprendere la strategia adottata, le modalità concrete di utilizzo del capitale di capacitazione, in precedenza chiamato budget di salute3, la gestione dei numerosi eventi critici successivi all’uscita dall’opg, la strategia di ampliamento delle opportunità e libertà di chi è stato coinvolto.




QUESTI ALCUNI RISULTATI
All’inizio del percorso, un terzo aveva tra i 24 e i 39 anni, il 39% tra i 40 e i 50 ed il restante 29% tra i 51 e i 64 anni; 52 di questi erano sottoposti a misure di sicurezza o pena in esecuzione; più della metà aveva avuto  una permanenza in Opg inferiore ai 5 anni, 12 persone meno di 2 anni e 2 persone oltre 25 anni. Tutti, tranne 1 che viveva in famiglia, erano  internati nell’Opg.
Nel momento della seconda rilevazione, invece: 3 persone vivono da sole, 3 sono in famiglia, 2 sono in un gruppo appartamento con altri e senza la presenza fissa di operatori, 10 in una struttura a bassa protezione (comunità alloggio, case famiglia) e 12 in comunità terapeutiche assistite.
Secondo le scale utilizzate, somministrate in un arco temporale medio di 20 mesi, e le interviste raccolte, questo percorso presenta miglioramenti significativi nelle condizioni di salute mentale e fisica, nelle problematiche legate alla vita quotidiana, nei funzionamenti sociali. In particolare, per quanto riguarda:
– il rischio sociale per sé e per gli altri – minor necessità di protezione delle residenze, minor bisogno personale di protezione e assistenza nonché di accompagnamento durante la licenza o l’uscita, migliore gestione del rischio clinico – che per le recidive (il 6% contro lo storico dell’istituto del 45%);
– le attività della vita quotidiana – cura di sé, uso del denaro, organizzazione del tempo libero e del lavoro – e dell’uso di risorse per attività lavorative, ricreative e relazionali;
– i problemi legati all’umore depresso e a comportamenti aggressivi e autolesivi.
All’opposto, non risultano cambiamenti né in positivo e neppure in negativo in riferimento alle problematiche legate all’uso di droghe e alcool, a disabilità fisica o a malattie somatiche “poiché con tutta probabilità questo tipo di problemi non subisce modifiche nel breve periodo”(p. 93). Così come risultano poco rilevanti, pure qui in positivo o in negativo, le reti familiari, sia quelle più intime che che quelle più estese.
In conclusione, “dei 49 beneficiari che attualmente hanno completato con successo la fase di deistituzionalizzazione, ben 19 sono inseriti in percorsi lavorativi durevoli; 2 sono stati accompagnati alla pensione da lavoro e/o di reversibilità; 8 fruiscono di reddito minimo garantito dalla Fondazione di Comunità. Per alcuni di questi ultimi, data l’età avanzata, il reddito va considerato una misura permanente di sostegno alle libertà individuali, per gli altri va considerato un reddito di inserimento ”(p.103).
Le variabili che influiscono in modo significativo nell’ottenere questi esiti rinviano a parole tutt’altro che sconosciute nelle retoriche dei servizi di questi ultimi anni, come flessibilità e personalizzazione nel rendere effettivo il diritto all’abitare, al reddito e alla socialità; o come cura della relazione e il farsi carico dell’affettività.  
Quello che però la lettura d’insieme del volume fa emergere con forza nell’esperienza di Messina va oltre, o meglio supera, tali retoriche. Perché la chiave di volta, a parere di chi scrive,  risulta essere proprio quella della visione olistica e della conseguente gestione integrata delle diverse dimensioni – economica, culturale, terapeutica, territoriale, ecc. – attraverso un approccio imprenditorial-sociale impegnativo, intelligente e per molti versi innovativo4.
Approccio che rappresenta una delle poche alternative, efficaci e coerenti con una visione dinamica dei diritti di cittadinanza5, alla riduzione della copertura di welfare pubblico (già piuttosto corta) e alla espansione della logica di mercato, almeno li dove si possono ottenere profitti, nella risposta a profili di bisogno inerenti la salute, il lavoro, la casa, ecc.
Con la postilla che non sempre, anche tra gli stessi imprenditori sociali, si riconosce che lo sporcarsi le mani insieme alla riflessione critica su quanto si sta facendo sono condizione sine qua non per rigenerare permanentemente la propria azione. Come dire, portate le primizie in cucina, si ritorna a curare l’orto perché, per raccoglierne altre nella prossima stagione, quell’orto deve essere periodicamente zappato, concimato, seminato, ripulito, ecc.
Massimo Campedelli
Wiss/Dirpolis, Scuola Sant’Anna, Pisa
massimo.campedelli@gmail.com

BIBLIOGRAFIA
1. Borgomeo C. L’equivoco del Sud. Sviluppo e coesione sociale. Bari: Laterza, 2013.
2. Detto per inciso, pur non venendo citato, il riferimento all’esperienza basagliana è quantomai presente (De Leonardis O, Mauri D, Rotelli F. L’impresa sociale. Milano: Anabasi, 1994).
3. Righetti A. Il Budget di salute e il welfare di comunità, Laterza 2012. Recensito in: R&P 2014; 30: 162-5.
4. Fiorentini G, Calò F (a cura di). Impresa sociale & innovazione sociale. Milano: Franco Angeli, 2013.
5. Campedelli M, Carrozza P, Pepino L (a cura di). Diritto di welfare. Manuale di cittadinanza e istituzioni sociali. Collana del centro di ricerca Wiss. Bologna: Il Mulino, 2010.




La tutela dell’ambiente necessita di più attenzione

Una delle tematiche legate alla tutela dell’ambiente che oggi richiede maggiore attenzione è quella dei terreni contaminati per la quale è da tutti sentita la necessità di un aggiornamento del quadro normativo.
Il Tavolo di Roma, un think tank costituitosi alcuni anni fa per una gestione sostenibile dei rifiuti e delle risorse, composto da figure professionali non portatrici di interessi, in rappresentanza di diversi ambiti disciplinari e funzionali, si è fatto interprete di questa esigenza. Il Tavolo ha pertanto promosso la costituzione di un Comitato Tecnico Terreni Contaminati (CTTC) con il fine di sviluppare un’ampia discussione tecnico-scientifica atta a fare da supporto ad una nuova normativa di settore calibrata sui seguenti (non esaustivi) aspetti: sostenibilità ambientale, criteri di priorità negli interventi, realismo tecnico ed economico delle possibili soluzioni, valutazione degli effetti (conclamati o potenziali) sulla salute, utilizzo/ risanamento delle aree, ecc.
Il CTTC è stato aperto a tutti coloro che a vario titolo sono attivi o hanno maturato significativa esperienza nel campo dei terreni contaminati (ricercatori, amministratori, progettisti, consulenti, politici, imprenditori, rappresentanti di cittadini di aree contaminate, ecc.) Ai lavori del Comitato hanno partecipato complessivamente circa 150 persone provenienti da diversi ambiti disciplinari e da diverse aree geografiche, con un impegno complessivo di tempo quantificabile in circa 10.000 ore/uomo.
L’attività svolta, articolata in diversi gruppi di lavoro tematici (strumenti decisionali, caratterizzazione, interventi, procedure autorizzative, obiettivi di bonifica, prioritizzazione e salute, destinazione d’uso, materiali di scavo e sedimenti) aveva il compito di mettere a fuoco, in tempi ragionevolmente brevi, le problematiche più significative con l’elaborazione di un insieme di proposte, caratterizzate da un livello di definizione differenziato in funzione della complessità delle specifiche tematiche. Non quindi in forma di un esaustivo quadro normativo, che sarebbe risultato velleitario e comunque nei compiti delle istituzioni e non di un Comitato volontario come il CTTC, ma di uno strumento di lavoro utile e indispensabile per poter avviare un confronto con la comunità tecnico-scientifica e le istituzioni.



Il rapporto finale è diviso in tre parti: la prima riporta in sintesi, ricavandole da una documentazione di lavoro molto dettagliata e aggregandole per aree tematiche più ampie rispetto a quelle dei gruppi di lavoro, le criticità e le proposte che hanno raggiunto un buon livello di condivisione di opinioni.
Nella seconda sono riportate le relazioni conclusive elaborate dai vari gruppi, organizzate in capitoli con grafica omogenea, ma non necessariamente con una impostazione di contenuti altrettanto omogenea. Le relazioni dei gruppi possono infatti variamente contenere indicazioni di problematiche ritenute unanimemente importanti ai fini di una loro traduzione in normativa o di altre controverse che necessitano di ulteriore approfondimento. Inoltre esse possono contenere proposte di modifica (cancellazioni/integrazioni) della vigente normativa, con eventuale formulazione di nuovo articoli di legge. Alcune considerazioni svolte dai gruppi possono costituire utili linee guida per il settore.
Le proposte normative, stralciate dalle relazioni o elaborate ad hoc sono state tutte raccolte nella terza parte.
In un lavoro come questo è inevitabile che ognuno sia intervenuto con l’influenza delle proprie esperienze, delle proprie consolidate opinioni, del proprio ruolo, degli obiettivi istituzionali della struttura presso la quale opera, del proprio background culturale, tecnico e scientifico. Questa varietà, lungi dal generare confusione o peggio posizioni di parte, ha arricchito in modo virtuoso il dibattito. Questo può costituire il migliore viatico per una revisione della normativa fondata saldamente su un elevato grado di accettazione e di condivisione da parte della comunità coinvolta nella sua applicazione.
Raffaello Cossu
Coordinatore generale del CTTC
Università degli Studi di Padova
raffaello.cossu@unipd.it