Operazione Mare Sicuro
Nave Borsini 5-20 luglio 2016


Sono stata imbarcata come medico volontario della Fondazione Rava sul Pattugliatore d’altura Comandante Borsini (P491) della Marina Militare dal 5 al 20 luglio 2016 nell’ambito dell’operazione Mare Sicuro.
Da oltre 3 anni la Fondazione Rava supporta la Marina Militare Italiana coordinando la presenza di personale sanitario civile volontario sulle navi, in quanto il personale sanitario militare non è sufficiente per far fronte all’emergenza migranti.
Trovo che fare della propria professione una attività anche di volontariato, quindi di prestazione non retribuita in progetti umanitari, sia una delle grandi fortune e opportunità che offre la professione medica, specie quella del pediatra, e in questa fase della mia vita ho la fortuna di potermi permettere con una certa facilità questo servizio avendo figli grandi, marito santo e vecchietti della famiglia ancora discretamente autosufficienti.
Mi affascinava il mettermi alla prova in termini professionali: in ospedale ci sono i colleghi, i consulenti, i servizi di diagnostica, il mondo conosciuto nel quale l’attività del singolo gioca un ruolo in orchestra con le altre competenze. Lì sulla nave sarei stata l’unico medico, senza una struttura sanitaria alle spalle, con strumenti diagnostico-terapeutici molto limitati, sola con le mie competenze, con il mio senso clinico, con la mia capacità di lavorare con persone che incontravo per la prima volta (Alessandro infermiere e Diletta psicologa della Fondazione Rava, Roberta infermiera e Giuseppe operatore sanitario della Marina Militare) e con loro chiamata a fare squadra in condizioni di lavoro difficili e di urgenza. Prima di partire avevo anche frequentato la sala parto del mio ospedale per avere qualche dritta dalle ostetriche e non far danni qualora mi fossi trovata ad assistere donne in travaglio.
La motivazione principale è stata comunque il fatto che non posso pensare al Mediterraneo come ad una tomba di migliaia di esseri umani inermi, senza sentirmi interrogata personalmente a dare il mio piccolissimo contributo perché questa tragedia, di cui ci verrà chiesto conto, sia evitata.
Quindi ho telefonato a Emma Bajardi, regista dell’organizzazione sanitaria di Fondazione Rava per il progetto con la Marina Militare, ho dato la mia disponibilità, ho chiesto ferie nel periodo indicato e il 5 luglio, giorno del mio 55esimo compleanno, sono partita da Linate con Alessandro, infermiere di Cuneo, alla volta di Catania.
Ero molto incuriosita, ma non sapevo assolutamente cosa aspettarmi, conoscendo ben poco della vita di una nave militare e dell’organizzazione che sta dietro ai soccorsi alle carrette del mare.

LA NAVE
La nave è un condominio autarchico: l’equipaggio è composto da una sessantina di persone, per la stragrande maggioranza uomini (sul Borsini l’unica donna è Roberta, splendido maresciallo infermiera), ciascuno con un proprio ruolo ben definito e tutti si muovono in sinergia e in collaborazione, dal Comandante all’ultimo marinaio, perché ogni problema venga affrontato e risolto durante la navigazione e i compiti affidati siano svolti con competenza e professionalità. Al Pattugliatore Borsini, come ad altre navi della Marina Militare, è affidata una zona di mare da sorvegliare nell’ambito dell’Operazione Mare Sicuro, nel canale di Sicilia. Si tratta di garantire la sicurezza alle piattaforme dell’ENI, le fiamme delle quali brillano all’orizzonte nelle notti terse estive, e ai mercantili in transito e sorvegliare e intervenire nelle operazioni di soccorso, attività che negli ultimi quattro anni è divenuta preponderante. Tutte le operazioni vengono coordinate da una centrale operativa a terra e dall’Ammiraglio presente nel nostro periodo di navigazione sulla Fregata Margottini. La zona di mare pattugliata dal Borsini è a circa 24 ore di navigazione dall’Italia. Salpati dal porto militare di Augusta, a circa 50 miglia dalla costa italiana, la connessione internet sparisce e l’unico contatto possibile con il mondo è il telefono, con difficoltà quotidiane nel prendere la linea: sembra un po’ di tornare a 20 anni fa, quando con i famigliari lontani valeva la regola ’no nuove, buone nuove’ e non esisteva la perenne connessione con l’universo. È un silenzio telematico tutto sommato rilassante, per chi lo sperimenta saltuariamente, pesante da sopportare per chi lo vive quotidianamente.
Il personale militare della nave è organizzato per diverse competenze.
Ci sono i militari dedicati all’elicottero, che ci ha raggiunti sul ponte volo appena usciti dal porto militare di Augusta: il loro ruolo è sorvolare la zona da pattugliare, identificare le imbarcazioni segnalate, intervenire per la sicurezza o il salvataggio, trasportare i feriti che necessitano di soccorso avanzato immediato. Ciascuno ha un suo ruolo ben coordinato con quello degli altri ed è solo la loro sinergia che garantisce la sicurezza e l’efficacia degli interventi: anche solo l’appontare (posare l’elicottero sul ponte volo) chiede il lavoro in equipe di una decina di persone altamente qualificate.
C’è il team della Brigata San Marco, i “marò”, un piccolo gruppo di ventenni guidati da un aiutante trentenne e un paio di “snipers”, tiratori scelti, dedicati alla sicurezza della nave, addestrati agli interventi più pericolosi e ’di combattimento’. Sono una forza anfiba: il loro è un addestramento permanente, molto fisico e pesante. Sono in grado di utilizzare armi leggere e di intervenire prontamente in situazioni delicate, come per esempio scoraggiare gli sciacalli a recuperare le imbarcazioni per nuove partenze, garantire la sicurezza tra i migranti salvati e l’incolumità del personale di bordo. Hanno un forte spirito di corpo e una grande intesa di squadra.
Poi c’e il personale della nave. Il Comandante è un quarantenne autorevole e pacato. Gioviale e cordiale sa dirigere con competenza e fermezza i suoi uomini anche nelle situazioni più complesse e risponde di ogni evento che capita sulla nave. Nei rari momenti di tempo libero, al tramonto, posiziona la sua canna da pesca dal ponte volo: ed è riuscito a pescare due bei tonnetti, cucinati magnificamente dai cuochi di bordo. Il ’secondo’, il vice-comandante, è un po’ la ’mamma’ dell’equipaggio, come è stato definito durante un incontro di gruppo gestito da Diletta, la psicoterapeuta di Fondazione Rava: molto attivo, sempre presente, punto di riferimento per ogni problema e ogni decisione. Ci sono gli ufficiali, impeccabili nell’etichetta e sempre vigili e disponibili nei loro ruoli di responsabilità; c’è il segretario, il generoso e gentile Riccardo, e il suo team; chi si occupa delle telecomunicazioni, il mitico Giovanni e i suoi; i sommozzatori sempre presenti nelle operazioni di salvataggio, statuari più dei bronzi di Riace; gli incredibili cuochi, che quotidianamente sfamano l’equipaggio con prelibatezze, tra le quali bruschetta a metà mattina e pizza a mezzanotte, e in grado di sfornare più di 1000 vaschette di riso e pesce per gli ospiti salvati dal mare; quelli che si occupano delle macchine e quelli delle armi (su ogni pattugliatore c’è un cannone, mitragliatrici, armi leggere), i nocchieri che manovrano con perizia e in ogni condizione di mare le idrobarche, e il personale sanitario, Roberta, attivissima infermiera e Giuseppe di supporto e di aiuto. Insomma una grande e affiatata famiglia che ci ha subito accolto con affetto, simpatia e disponibilità.

VITA DI BORDO
Per qualche giorno abbiamo avuto mare grosso, forza 4-5, tanto da doverci riparare dal maestrale verso le coste tunisine: quando le condizioni del tempo sono cattive le imbarcazioni di fortuna con le quali i migranti prendono il mare non sono in grado di lasciare la costa libica e quindi si sa in anticipo che non ci saranno soccorsi.
In quei giorni, l’equipaggio è impegnato in una serie di esercitazioni e attività proprie di una nave militare e noi siamo stati coinvolti naturalmente nella loro vita e organizzazione. Così alla mattina sul ponte volo c’è una breve assemblea di tutto il personale con il “secondo”, il vice comandante, di aggiornamento della situazione e di programma della giornata; poi c’è il momento della pulizia degli spazi personali e degli spazi comuni; poi un briefing dei responsabili con il Comandante per un aggiornamento più dettagliato e la programmazione delle attività. Ogni componente ha le proprie esercitazioni perché in caso di necessità ognuno possa giocare il proprio ruolo al meglio per il bene di tutti.
Anche noi volontari sanitari abbiamo dato il nostro contributo alla vita di bordo, secondo le nostre competenze. Diletta ha organizzato degli incontri con l’intento di affrontare tematiche libere inerenti all’esperienza vissuta a bordo e sono nate discussioni interessanti sul ruolo della Marina Militare nella vicenda dei migranti, sulle relazioni gerarchiche tra loro, sulla lontananza da casa, sui figli, sulla presenza di noi volontari. Gli equipaggi sono ormai da quattro anni impegnati nelle operazioni di salvataggio e non riescono più a vedere tale situazione come un’emergenza, ma come un nuovo ruolo al quale sono stati destinati, che non hanno scelto, che spesso esula dalle loro competenze e non consente loro di svolgere le loro proprie attività. Queste considerazioni peraltro non impediscono a ciascuno di loro di dare il massimo perché nel corso di ogni evento di soccorso, chiamato SAR ( Search And Rescue) nessuno vada perduto e in ogni bimbo che traggono in salvo vedono i loro figli lontani e sono capaci di commuoversi come bambini. Persone davvero speciali capaci di dedizione e spirito di sacrificio non comuni.
Anch’io ho dato un piccolo contributo formativo: nelle giornate tranquille ho organizzato delle lezioni sulle malattie esantematiche nel bambino, le vaccinazioni, le emergenze sanitarie, con una partecipazione che mi ha stupito per entusiasmo e competenza. Interesse vivace, domande circostanziate, partecipazione più che attiva: molti papà, fieri ed apprensivi, hanno posto quesiti non banali, forti della loro esperienza di genitori, e tutti hanno seguito con attenzione ed entusiasmo: una vera soddisfazione.
L’hangar e il ponte volo sono diventati la ’piazzetta’ dove ci si trovava nei momenti liberi, si chiacchierava e si commentavano i fatti, si giocava a calcetto, si ammiravano il mare e le stelle, incredibili nel buio della notte, si faceva sport insieme, dalla corsa, alla cyclette, a Insanity, sotto la presenza vigile e accogliente di Bob, il capo-hangar, diventato in pochi giorni un amico e un fratello di avventura. Le sue battute sagaci e la sua quieta ironia hanno dato alle nostre giornate il piacere di belle e allegre risate. Nei giorni di tranquillità piacevolissime le pennichelle pomeridiane all’ombra della pala dell’elicottero sul ponte volo e le serate a commentare i film, scelti con democratica votazione, nel quadrato sotto-ufficiali. Anche il torneo di calciobalilla disputato con sano e vivace agonismo, che ha visto sfidarsi le coppie più improbabili formate con trasperente e pubblico sorteggio, è stato occasione per un pomeriggio di festa insieme.
Noi team sanitario ci siamo subito ritrovati per stile di lavoro e affinità di carattere: l’insuperabile Roberta, infermiera della Marina Militare, infaticabile e preziosissima per la sua esperienza nelle operazioni di salvataggio; Giuseppe, operatore sanitario della Marina Militare, generoso e cordiale; Alessandro, infermiere volontario di Fondazione Rava, gioviale e sempre disponibile e Diletta, psicoterapeuta di Roma, al suo primo imbarco e con il compito di avviare un progetto pilota, che è riuscita in poco tempo ad essere elemento di connessione e amalgama tra le varie componenti dell’equipaggio. Come medico di bordo la sottoscritta era il punto di riferimento sanitario anche per l’equipaggio ed è stato un vero piacere curare gli acciacchi di questi nuovi amici o fare da consulente pediatra alle mogli per i bimbi a casa lontani.
La sera le attività terminano con la cerimonia dell’ammaina bandiera, la recita della preghiera del marinaio, commovente nella luce del crepuscolo con gli uomini sull’attenti a ricordare i sacrifici dei commilitoni per la difesa del loro Paese, e l’oscuramento della nave: durante la notte 6 militari restano di guardia in plancia, il posto di comando della nave, e alle macchine.
Abbiamo navigato per 15 giorni in mare aperto, senza vedere terra. Non mi stancavo di contemplare il mare: nel viola del tramonto o nel rosato dell’alba, piatto e lucente come una tavola o arrabbiato con le ’ochette’ bianche che si rincorrevano indomite, con gli spruzzi dei banchi di pesci sorvolati dai gabbiani affamati o solcato dai delfini che si affiancavano alla nave nella luce della sera, uno spettacolo incredibile al quale non mi sono mai assuefatta. Ai miei nuovi amici dicevo che mi sentivo come di fronte ad un ologramma di indicibile bellezza e non mi capacitavo di essere proprio lì a contemplare tanta magnificenza. Le stelle erano uno spettacolo grandioso: il carro piccolo e il grande, la Polare, la cintura di Orione, Cassiopea, il Cigno, la Via lattea mai così popolata e ricca, le stelle cadenti come bengala. Di fronte all’imponenza del creato ti senti pulviscolo e riaffiorano le domande sul senso del nostro essere al mondo, sulla destinazione del viaggio che stiamo vivendo, domande sopite quando si è stritolati dal quotidiano e incapaci di alzare lo sguardo e contemplare e farci interrogare da ciò che ci circonda. E non può che sgorgare dal cuore un grazie per tutto ciò che ci è stato donato così immeritatamente e gratuitamente e sentire la responsabilità di giocare con passione ed entusiasmo il tempo dato con e per chi ci sta al fianco.

SAR
Dalla segnalazione di possibili imbarcazioni di migranti alla dichiarazione di un evento SAR possono passare anche alcune ore: ci si avvicina alla zona segnalata, si devono identificare le imbarcazioni sospette, ci si coordina con le altre eventuali forze navali disponibili per i diversi ruoli. Se viene dichiarato evento SAR in atto tutti si preparano a dare il proprio contributo perché nessuno perisca in mare e perché chi è in pericolo possa trovare salvezza sulla nave. Il Comandante dalla plancia coordina e dirige l’intervento dei diversi team. Si indossano i presidi di protezione: le tute bianche isolanti con cappuccio, i calzari, doppi guanti, la mascherina chirurgica e così bardati si è al sicuro da contagi, ma vittime di un caldo infernale. Escono le idrobarche manovrate con maestria infinita dai nocchieri, con un sommozzatore e un marò della Brigata San Marco: il loro compito è quello di valutare rapidamente il numero dei migranti, l’eventuale presenza di scafisti, se sull’imbarcazione soccorsa ci siano situazioni di pericolo o di emergenza sanitaria. Vengono distribuiti i salvagenti e portati i migranti sulla nave, iniziando dai più gravi, dalle donne e dai bambini. Anche sulla nave avviene un primo controllo da parte dei marò per escludere la presenza di armi e poi i migranti vengono accolti dal team sanitario per una prima valutazione dei bisogni e dello stato di salute. Il viaggio in mare è generalmente di poche ore, ma spesso questo è solo l’ultimo tratto di un viaggio di mesi in condizioni di estrema precarietà, esposti a violenze di ogni tipo e le cicatrici e le ferite dei loro corpi raccontano delle traversie subite. Hanno gli occhi pieni di terrore e angoscia, ma basta stringere loro le mani e dire welcome, dire loro che ora sono al sicuro, che si aprono subito al sorriso. Si affrontano subito con un triage in continuo divenire le situazioni di gravità: le disidratazioni, le sincopi, le ustioni, le ferite, le fratture, i vomiti, le cefalee. Quelli affetti da scabbia sono tenuti separati dagli altri e individuati. Tutti vengono numerati e fotografati e i problemi sanitari e gli interventi su ciascuno segnalati in una relazione sanitaria inviata entro poche ore al Comando centrale, che tenendo conto del numero di persone soccorse e delle condizioni di salute ne decide la destinazione. Le donne e i bambini, molti anche piccolissimi, vengono sistemati al coperto nell’hangar, gli uomini sul ponte volo. Quando la situazione è stabile vengono distribuiti i pasti, latte e omogeneizzati ai piccoletti e riso e pesce agli altri. In base alle condizioni cliniche, al numero di migranti e alla disponibilità di navi civili nelle vicinanze la centrale operativa decide dove collocare i migranti e chi li porterà a terra. Nel corso dei primi quattro salvataggi (circa 130 persone per ogni evento), dopo averli raccolti e accuditi, ci è stato chiesto di trasbordare i migranti su navi civili europee coinvolte nelle operazioni di soccorso nel Mediterraneo che avevano posto per una accoglienza più adeguata e ciò ha consentito al pattugliatore Borsini di restare nell’area da sorvegliare. Far risalire i migranti sulle idrobarche per il trasbordo sulle navi civili quando il mare è solo un po’ mosso richiede una destrezza non indifferente; più di una volta questo compito è stato svolto dai nocchieri della Marina Militare, perché i civili non erano in grado di accostarsi al Borsini senza rischio che qualcuno finisse in mare. In 15 giorni abbiamo tratto in salvo più di 1500 persone. Nell’ambito dell’ultimo SAR abbiamo recuperato 1146 persone (da un barcone e da due gommoni), un vero e proprio record per le dimensioni del pattugliatore (88 mt di lunghezza), più di 20 gravide, un centinaio di bambini, moltissimi lattanti. Non essendo possibile trasferire tutte queste persone su un’altra nave ed essendo alla fine del nostro periodo di navigazione, è stato affidato a noi il compito di portarli dal Mar Libico a Palermo, dedicandoci a loro per più di 50 ore consecutive. La notte per difendere dal freddo gli uomini accolti sul ponte volo abbiamo distribuito le metalline, le coperte termiche: il loro luccichio al chiarore della luna piena nel vento del Mediterraneo in rotta verso l’Italia mi suggeriva che c’è luce anche nel buio della fuga e dell’abbandono quando qualcuno si fa prossimo.
Appena i migranti sono a bordo tutto gira intorno a loro per garantirne la sicurezza, il supporto sanitario, il conforto di cibo, acqua, servizi igienici, accoglienza. I ritmi di lavoro sono serrati e dettati solo dalle loro esigenze, che sono moltissime: sono spesso in condizioni cliniche precarie, disidratati, stanchi, feriti, affamati, giungono da lunghi viaggi di disperazione, violenze di ogni tipo, perdita delle persone più care, della dignità, di ogni sicurezza. I loro occhi parlano di disperazione e di sofferenza, ma anche di fiducia e di speranza. E il sorriso dei bambini ti dice che nonostante gli orrori subiti loro vanno avanti e il mondo continua a girare.
È una medicina povera e di frontiera, non hai strumenti diagnostici, pochi farmaci a disposizione. Devi continuamente fare triage per decidere a chi dedicarti, chi soccorrere, a chi somministrare medicine. Devi basarti sul tuo senso clinico e su cosa sai e sai fare, è una bella sfida e un modo molto concreto per curare le deviazioni della medicina occidentale, malata spesso di spreco delle risorse e inutilità degli accertamenti.
Uno dei primi giorni della missione siamo stati contattati da una nave civile olandese perché il loro medico aveva rianimato un profugo in arresto, intossicato dai fumi del combustibile del barcone sul quale viaggiava e sul quale avevano trovato la morte altri 4 disperati. Con l’idrobarca siamo andati a recuperare questo giovane uomo in distress respiratorio, che necessitava di essere supportato con Ambu e ossigeno. L’abbiamo portato sulla nostra nave, il nostro elicottero è volato sulla fregata Margottini e da lì è venuto un elicottero con una maggiore autonomia in grado di raggiungere la Sicilia e un medico della Marina Militare l’ha accompagnato fino a Catania, dove è stato ricoverato presso la Terapia Intensiva: nei giorni successivi abbiamo saputo del suo miglioramento con grande soddisfazione di tutti noi.
Ogni volta che si lascia la zona della nave dove sono accolti i migranti, l’hangar, il ponte volo, la poppetta, occorre levarsi tutti i presidi e disinfettarsi nella zona filtro così occorre rivestirsi quando si torna nella zona loro dedicata, per evitare di contaminare gli spazi di vita della nave e proteggersi da eventuali infezioni. Quando i migranti lasciano la nave, tutti gli spazi dedicati all’accoglienza vanno puliti e decontaminati perché la nave torni pronta per la missione successiva: questa attività di pulizia richiede a tutto l’equipaggio molte ore di intenso lavoro. Dal punto di vista sanitario occorre rimettere in ordine l’infermeria e i farmaci, valutare il materiale e i presidi utilizzati e fare un bilancio delle scorte a disposizione per gli eventi successivi.

COSA RESTA
Sono tornata a casa con la nave Borsini nel cuore e per giorni ho raccontato a tutti dell’avventura vissuta. Si viene subito coinvolti nel clima di famiglia e di solidarietà che vive l’equipaggio, ti senti parte di una collettività che lavora e opera per un fine comune: tra loro i commilitoni si chiamano ’fra’ e questo termine esprime molto bene la complicità e la fratellanza che li lega. Queste relazioni forti non escludono e non emarginano nessuno, senti subito l’affetto, la stima e la solidarietà che ti accolgono. La vita di quei giorni resta dentro, le persone, le loro storie, i racconti delle loro famiglie che hanno un po’ sposato la Marina Militare, perché è con la Marina Militare che dividono i loro cari. Quando uno di loro si sposa i colleghi fanno un ponte di sciabole sotto il quale passa la coppia: l’ultimo colpisce delicatamente la sposa con la sciabola sul fondoschiena e le dice ’benvenuta in Marina!!’, e questo racconta tutte le rinunce che attendono la nuova famiglia per la vita che decidono di fare questi uomini. Ripenso a quell’omone di Riccardo che con la sua ombra protegge dal sole la donna eritrea affaticata e a Luigi sempre sorridente e innamorato di Elisa, la sua bellissima bambina; penso a Salvo che con pazienza mi fa da coach nell’ora di ginnastica e ad Alessandro, preoccupato perché il suo terzo bimbo ancora non parla bene. Penso a Marco, uno del due splendidi piloti, che mi ha sorriso compiaciuto quando gli ho detto di aver gustato recentemente un delizioso paninetto con porchetta a Treviso, la sua città natale, e considerando la vita militare e il suo futuro mi diceva un incredibile ’ma chi mi vuole, con la vita che faccio…’ Penso alle chiacchierate con Roberto e con Giovanni e alle preoccupazioni che i figli crescano dritti, nonostante i papà lontani. Risento ’dottoressa bellaaaa’ appellativo col quale i militari ci chiamavano scimmiottando l’ultimo film di Checco Zalone e penso alla foto del Borsini con dedica, donata dal Comandante a noi volontari alla fine della missione. Penso alla serata con pizzata in hangar, alla scenetta esilarante di Cappuccetto Rosso con finale a sorpresa e alla scivolata sulla scaletta del ponte volo e a Gabriele spaventato che voleva chiamare il medico ed è rimasto perplesso sul da farsi quando ha scoperto che il dottore era il ferito. E poi Enzo silenzioso, timido e gentile, Massimo burbero, ma dal cuore d’oro, Alfio e la sua passione per la pesca, Antonio col ciuffo da ragazzino, quasi timoroso a chiedere consulenza medica, Mirko che non torna a casa da 3 mesi e ciascuno di loro dei quali serbo uno sguardo complice, una frase gentile, una battuta divertente, una chiacchiera serale, un gesto delicato. Ricordo le cene al quadrato ufficiali, i commenti dei fatti tragici del telegiornale (la strage di Nizza, lo schianto frontale dei due treni), le esercitazioni dell’elicottero con il barbettone seguite e filmate dall’hangar; i caffè offerti, le battute irresistibili, i tramonti infiniti, le stelle cadenti. E vorrei che davvero per ciascuno di loro si realizzassero tutti i sogni e i desideri che portano nel cuore perché sono amici che non posso dimenticare.
Lavorare in situazioni estreme generalmente affratella, specie se si riesce a collaborare proficuamente e ciascuno sente valorizzato il proprio ruolo e le proprie competenze: tra noi del team sanitario si è respirato da subito un clima di stima e di solidarietà che ci ha permesso di reggere i ritmi pesanti sostenendoci e aiutandoci a vicenda, tanto da concludere la nostra missione sperando di ritrovarci presto per futuri imbarchi a lavorare di nuovo insieme.
Restano dentro gli sguardi e i volti delle persone salvate dal mare, i loro incubi, le loro paure. Quel cucciolo di pochi mesi che subito ha sorriso al biberon che ha agguantato vorace con le manine, mentre la sua mamma, vistolo al sicuro, si addormentava stremata. La gravida sola e triste che ha potuto riposare il corpo appesantito. La bimbetta dagli occhi neri velluto che mi abbracciava e mi chiamava mamy, sorridendomi vispa. Il ragazzino eritreo senza genitori che non ci perdeva di vista e ci guardava pieno di domande e aspettative. La vecchietta diabetica e cieca, ma anagraficamente ben più giovane di me, che ripetendo all’infinito sugar ci ha fatto capire quale era il suo problema che abbiamo trattato prontamente con insulina, visto al destrostix un valore esorbitante di glicemia. Il siriano con la crisi tetanica, probabilmente da iperventilazione, risolta con maschera senza ossigeno e diazepam, che mi ha stretto le mani ringraziandomi del tempo dedicato a lui personalmente. Il ragazzo somalo che ha toccato timidamente il fonendo che avevo al collo e mi ha detto che anche lui da grande vuole diventare dottore. La giovane nigeriana che si stupiva della nostra gentilezza. Le donne che ci chiamavano ’sister’ per chiedere il latte o i pannolini per i loro bambini, sorridenti quando li tenevamo noi in braccio, consentendo loro di riposare un po’. I bimbi allegri e vivaci, subito pronti al gioco con i palloncini improvvisati con i guanti di protezione. Se penso alla cura e alla dedizione che riserviamo ai nostri figli, spesso unici, è inaccettabile che altri bambini vivano in tali condizioni di pericolo e precarietà. Mi chiedo quale mondo possa sopportare di non proteggere e preservare i propri cuccioli che sono il nostro domani e la nostra speranza, quale declino spaventoso ci attenda se anche l’infanzia non è più per noi adulti quel giardino di sacralità e bellezza che nulla deve violare e ferire.
 Di ognuno avrei voluto conoscere la storia, la famiglia, la terra da cui proviene, i cari che ha perduto, il perché del suo viaggio, le brutalità subite, il bene ricevuto, le potenzialità e le competenze, i sogni e le aspettative. Ma dovevo e potevo solo correre per curare, aiutare, sfamare, idratare, medicare, soccorrere, consolare. Mi resta la convinzione di aver fatto troppo poco per loro, averli solo sfiorati nella loro vicenda, non aver inciso sul loro destino, non aver capito nulla di ciò che ci sta dietro a questa brutale tratta di esseri umani e aver ricevuto molto più di quel poco dato. Le cicatrici, le ferite, le ustioni sui corpi martoriati restano scolpite nel cuore.
Quando uno alla volta li ho visti sbarcare sul molo di Palermo attesi da Croce Rossa, Autorità, Stampa, Protezione Civile, personale del Ministero della Salute ho pensato che ognuno di loro è una persona, con la sua storia, le sue necessità, i suoi bisogni, non certo solo un numero di una statistica e mi chiedo cosa ne sarà di loro, in quale Centro finiranno, se ritroveranno il parente in Svezia e lo riusciranno mai a raggiungere, se verrà riconosciuto loro il diritto d’asilo, se comunque saranno almeno guardati con il rispetto e la considerazione che merita ogni essere umano, specie se solo e indifeso, dalla nostra civile e progredita società.
Incontrare di persona i migranti, guardarli negli occhi, curarli non consente più di pensare a questa tragedia come qualcosa che interessa altri, non in grado di scalfire la nostra placida e tiepida indifferenza. Sono uomini, donne, bambini che hanno solo avuto la sfortuna di nascere qualche migliaio di chilometri più a sud di noi, come noi, con gli stessi diritti, le stesse aspettative, gli stessi sogni che ciascuno di noi ha. Non può trovare spazio la superficialità di giudizio, dettata dalla paura e dall’ignoranza. A questa emergenza più grande di noi dobbiamo augurarci di saper rispondere con la fantasia e la novità di soluzioni che la trasformino in opportunità e occasione per loro e per noi.
Alle 23 del 20 luglio la nave Borsini lasciava il molo di Palermo alla volta di Augusta salutandoci con un lungo suono di sirena, i nostri amici migranti partivano con una colonna di autobus verso i Centri di accoglienza e il loro domani europeo e Alessandro, Diletta ed io, team sanitario civile, ci incamminavamo con gli zaini in spalla verso la nostra vita di sempre, colmi di tutte le emozioni, le storie, gli sguardi dei giorni trascorsi nel canale di Sicilia.
Agosto 2016
Maria Luisa Melzi
medico volontario di Fondazione Rava
mimmi.melzi@libero.it




Fuocoammare: un medico alla frontiera

Jealous? Geloso!
Stressed? Stressato.
Interrogato in inglese a scuola, nella lingua degli altri il dodicenne lampedusano Samuele coglie innanzitutto le somiglianze, le parentele. Un segno in più che siamo tutti “poveri cristiani”, come dice sua zia Maria mentre – cucinando un ragù di calamari – ascolta da Radio Delta, l’emittente locale, il quotidiano bollettino di migranti morti e dispersi. Nella disposizione d’animo del bambino figlio di pescatori e dell’anziana si condensa già la pietas che ha spinto l’opinione pubblica a candidare al Nobel per la Pace la nostra isola a 70 miglia dalle coste africane. Ma è davvero nostra quella piccola isola così lontana, lasciata così sola?
La Lampedusa descritta da Gianfranco Rosi nel film vincitore dell’ultimo Festival di Berlino è senza sole e brulla, spazzata dal vento e dai rovesci. A largo incrociano tra le onde i pattugliatori di Marina e della Guardia costiera, cercando di salvare quante più vite possibile; negli ultimi 20 anni, 400.000 migranti sono passati dall’isola, 15.000 si sono inabissati nelle sue acque.
Rosi ha scelto di rimanere un anno sull’isola, per poter renderne la vita attraverso il ritratto appena accennato di alcuni personaggi. Un’ora e trequarti di film in presa diretta – nessuna voce over, nessuna musica – in grado di restituire lo spirito di una comunità fatta di adulti avari di parole – come lo zio e la nonna di Samuele – che affidano a gesti antichi e ripetuti il senso della propria vita: un sub di una certa età a pesca di ricci tra le onde tempestose; Giuseppe Fragapane, il deejay della radio locale che a un certo punto mette su una vecchia canzone del tempo di guerra, Fuocoammare, di cui si son perse le parole ma la cui musica accompagna ora come allora il lampeggiare del dramma dell’isola; una anziana devota della Madonna e di padre Pio, i cui gesti nel rassettare il letto, spianandolo da ogni piega, da ogni imperfezione dicono insieme della circolarità del tempo e dell’attenzione per le cose.
Samuele ed il suo amico girano per l’isola. Niente telefonini, niente TV: solo una mini-moto, una torcia e due fionde. Il mondo di morte che li circonda viene esorcizzato dal mimare il gesto insistito dello sparare con un invisibile fucile a pompa verso il cielo, verso il mare. Poi i cattivi diventano le pale dei fichi d’India, incise col coltello di modo che sembrino facce. Ma se le fionde fanno troppo danno, ecco che Samuele e l’amico le rabberciano con un improbabile nastro adesivo.
Rosi si è fatto accettare dal contesto, riuscendo così a riprenderlo dall’interno. E ciò vale anche per le poche, non insistite sequenze, dedicate al dramma atroce dei migranti: il barcone in balia delle onde, il soccorso dei militari che ne salvano centocinquanta ma che nulla possono per quaranta giovani corpi morti, di caldo, di disidratazione e di stenti. L’arrivo al centro di accoglienza, il canto funebre intonato dai nigeriani: «Non potevamo restare in Nigeria / Molti morivano, c’erano i bombardamenti / Ci bombardavano / e siamo scappati dalla Nigeria / siamo scappati nel deserto, / nel deserto del Sahara, / molti sono morti. / Nel deserto del Sahara molti sono morti / Sono stati uccisi, stuprati / Non potevamo restare».
E sbarcano, allora, sul molo del porto vecchio, subito incartati come caramelle nelle coperte isotermiche oroeargento. Schermati così dal freddo, ma esposti ancora allo strazio del dramma appena vissuto, al ricordo degli amici e parenti persi nella traversata. Piangono
lacrime di sangue, mentre il dottor Pietro Bartòlo, da trent’anni medico dell’isola, offre loro le prime cure.
Bartòlo è il direttore dell’Asl lampedusana. Ha visitato 250mila profughi, in 25 anni. Ispezionato migliaia di corpi esanimi, spesso di giovani, di donne gravide, di bambini. Non si è abituato a quelle sofferenze, a quelle ispezioni cadaveriche; e non si rassegna, convinto che sia “dovere di ogni uomo che sia uomo aiutare queste persone”. Sfoglia al computer il suo archivio personale, davanti alla macchina da presa discreta di Rosi, fermandosi sull’immagine di un adolescente africano, ustionato dalla nafta. È accorato, ma calmo, provato, ma nella sua voce vibra una riserva di sdegno e di speranza.
È lui, il dottore, il coprotagonista del film, insieme al piccolo Samuele che nel finale visita amorevolmente. Samuele è legittimamente preda dell’ansia: è lei, gli spiega il medico, che gli impedisce di respirare a pieni polmoni. Inoltre, il bambino ha l’occhio sinistro “pigro” e lo deve utilizzare di più. Deve abituarsi a tirare con la fionda agli uccellini prendendo la mira con l’occhio cattivo. Ma nell’ultima sequenza, come rappacificato e tranquillizzato dal colloquio col dottor Bartòlo, nonostante la mira sia ormai buona anche con l’occhio sinistro, l’ansia e l’aggressività di Samuele sembrano sopite ed il bambino azzarda perfino una carezza, con un dito, ad un passerotto.
Luciano De Fiore
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