Stabilire il prezzo dei farmaci: non serve, nelle condizioni attuali, affidarlo all’EMA

PREMESSA
Quando affermiamo che il prezzo di un nuovo farmaco è troppo elevato ci riferiamo a due situazioni differenti:
1. il prezzo è superiore rispetto alle alternative terapeutiche, anche quando il vantaggio clinico è assente o minimo;
2. il prezzo dei farmaci che rappresentano una svolta terapeutica è eccessivo rispetto ai pur condivisibili obiettivi di premiare l’innovazione e di favorire nuovi investimenti in ricerca.
Fra le possibili cause dei prezzi elevati, vi è in entrambe le situazioni il limitato potere contrattuale dei singoli Stati, anche quando le dimensioni sono quelle di un Paese come l’Italia, di fronte ad aziende produttrici che operano su un mercato mondiale. Allo scopo di rafforzare i sistemi sanitari che devono rimborsare i farmaci, una delle ipotesi considerate in Europa è quella di affidare all’European Medicines Agency (EMA) anche il compito di definire i prezzi. Di recente, questa proposta è stata rilanciata da Francesco Perrone in un bell’articolo pubblicato su Recenti Progressi in Medicina (http://politichedelfarmaco.it/ risorse-non-isdb/sostenibilita-e-nuovi-farmaci-antitumorali). I principali punti di forza consisterebbero in un aumento del peso contrattuale nei confronti delle aziende – 28 Paesi uniti contano più di ciascun singolo Paese – e in un miglioramento dell’efficienza, se si evita di ripetere 28 volte quello che potrebbe essere risolto una sola volta a livello centrale.
La mia opinione è che, almeno per ora, questa proposta non funzioni per la mancanza di almeno una delle seguenti condizioni: un budget complessivo per i servizi sanitari, finanziato a livello europeo per garantire un livello uniforme di assistenza a tutti i cittadini; la capacità di individuare un prezzo “giusto” di un farmaco.

PERCHÉ L’EMA NON È LA SEDE ADATTA ALLA DEFINIZIONE DEL PREZZO DEI FARMACI
L’assunzione di decisioni sul prezzo dei nuovi farmaci in assenza di un vincolo di budget è probabile che comporti un effetto inflattivo, opposto a quello desiderato dai servizi sanitari. In assenza di vincoli, infatti, non solo manca un reale interesse a contenere i prezzi, ma neppure si saprebbe in quali casi dire semplicemente “no”. Se anche non si condivide interamente questa ipotesi, bisogna almeno considerare che il rischio è concreto, se non altro in considerazione della capacità di pressione delle aziende farmaceutiche a cui non corrisponde neppure lontanamente un analogo potere dei rappresentanti dei cittadini.
Senza un vincolo di budget, bisognerebbe poter definire un prezzo dei farmaci in grado di remunerare “correttamente” i costi di produzione. Ma questo è, sostanzialmente, un compito impossibile. Basti pensare alle difficoltà di stabilire quali siano gli investimenti da considerare: quelli relativi al farmaco in questione; quelli fatti nel periodo, inclusi i farmaci che si sono rivelati inefficaci; quelli effettivamente sostenuti piuttosto che quelli fatti dall’azienda più efficiente (che ha sviluppato qualcosa di simile); quelli della prima azienda che arriva all’approvazione del nuovo farmaco piuttosto che di tutte le aziende che sono partite insieme anche se poi i farmaci hanno impiegato tempi diversi per arrivare sul mercato.
Rimarrebbe, poi, da stabilire quale sia una remunerazione adeguata degli investimenti in grado di incorporare l’incertezza relativa alla probabilità di (in)successo quando si investe in una nuova linea o un nuovo settore. Il fatto che “in media” si ottenga un certo rendimento non dice molto della probabilità per la singola azienda.

COSA POTREBBE INVECE FARE L’EMA (PER AIUTARE A CONTENERE IL PREZZO DEI FARMACI)
Oggi, nell’approvazione di un nuovo farmaco, l’EMA è chiamata a verificare efficacia, sicurezza e qualità: in definitiva, la presenza di un profilo beneficio-rischio positivo. Non è previsto, invece, che si esprima sul “place in therapy”, e cioè se un nuovo farmaco sia sovrapponibile o migliore, e in questo caso di quanto, rispetto alle alternative terapeutiche. È un peccato in quanto, sia al momento dell’approvazione di un farmaco che nel corso delle rivalutazioni successive, l’EMA è nella condizione ideale (grazie all’accesso a tutti gli studi clinici) per chiarire un elemento che sarebbe di straordinaria utilità, nella pratica clinica e nella definizione del prezzo di rimborso. Nonostante i margini di incertezza, l’analisi comparativa del profilo beneficio-rischio è in buona parte desumibile dagli studi clinici. Una volta definito il beneficio, ad esempio in termini di anni di vita guadagnati, o di QALY ( quality adjusted life years), sarebbe relativamente semplice stabilire se il prezzo di un farmaco è accettabile o meno.
L’EMA ha evitato, finora almeno, di svolgere questa funzione e le ragioni si possono comprendere. Un’azienda che produce un farmaco giudicato sovrapponibile alle alternative terapeutiche vede ridotti i margini di manovra per promuovere il suo prodotto. Sarebbe, invece, facilitato notevolmente il lavoro dei singoli Paesi nell’identificare i prezzi di rimborso: basterebbe stabilire, sulla base delle risorse complessive assegnate alla sanità (o al settore del farmaco), fino a quale prezzo per QALY il singolo Paese è in grado di effettuare il rimborso. Sopra questa soglia, il farmaco non sarebbe rimborsato. Una stessa valutazione di effetto è quindi compatibile con “asticelle” poste a livelli anche molto diversi, in relazione alle risorse disponibili.
Se l’EMA effettuasse queste analisi comparative, e se fossero rese disponibili dopo che le decisioni sono state assunte, si eviterebbe di dover replicare il lavoro in decine di sedi diverse. Si tratta del lavoro di base che poi deve comunque essere effettuato, non solo dalle agenzie regolatorie che contrattano il prezzo del farmaco, ma anche da tutte le organizzazioni e istituzioni (dal NICE ai gruppi coinvolti nell’elaborazione di linee guida) chiamate a fare valutazioni comparative e a fornire indicazioni per la pratica clinica.
Si può sostenere che questo lavoro non intaccherebbe le disuguaglianze regionali, in quanto i cittadini europei continuerebbero ad avere un accesso differenziato ai servizi sanitari. Di nuovo, questa mancanza di uniformità nell’accesso dipende dalla mancanza di una decisione strategica europea e da un finanziamento adeguato di obiettivi condivisi di salute. Dare o meno all’EMA la definizione dei prezzi non modificherebbe in nulla le differenze regionali di accesso.

CONCLUSIONI
Nel suo articolo, Perrone si pone un obiettivo più ambizioso rispetto alla “semplice” contrattazione del prezzo dei farmaci a livello EMA. L’intento è, infatti, quello di creare le condizioni affinché tutti i cittadini europei abbiano uguale accesso ai farmaci innovativi. Si tratta di un obiettivo che condivido. Tuttavia, per perseguirlo bisogna stabilire livelli comuni di assistenza sanitaria e quindi modificare i trattati europei, impresa non semplice e niente affatto attuale.
Nel frattempo, ci sono cose di grande utilità che potrebbero essere richieste già oggi all’EMA:
1. stabilire il “place in therapy” dei nuovi farmaci;
2. esplicitare i guadagni dei farmaci innovativi in termini di QALY o altra misura di effetto;
3. rendere pubblici i dati utilizzati nelle decisioni in modo che siano riutilizzabili a livello locale.
Se ci si limitasse ad attribuire all’EMA la definizione del prezzo dei famaci, mantenendo invariato il sistema di regole che attribuisce ai singoli Stati la definizione dei livelli di accesso alle prestazioni sanitarie (e più in generale di welfare), il risultato potrebbe, invece, essere addirittura peggiorativo rispetto alla situazione attuale.
Giuseppe Traversa
Centro nazionale di epidemiologia
Istituto Superiore di Sanità
giuseppe.traversa@iss.it