Cercando di sanare le ferite lasciate dalla guerra in Bosnia

Dopo più di due decadi dalla guerra in Bosnia, la memoria del conflitto e la cura dei vivi (e dei morti) sono così presenti da definire molte vite nello Stato balcanico.
Ilijaz Pilav era un medico di Srebrenica, città mineraria vicina al confine serbo, quando nel 1992 le forze serbe circondarono la popolazione musulmana, prevalente in città sulle comunità cristiane. Come molte città della Bosnia, Srebrenica è circondata da colline, ed è stata quindi facile bersaglio di artiglieria e mortai durante la guerra.
La guerra del 1992-95 seguì alla disgregazione di quella che era stata la Yugoslavia. Dopo che la repubblica di Bosnia ed Erzegovina votò per l’indipendenza, le forze serbe si mobilitarono e, per assicurarsi una continuità territoriale, espulsero con la forza gli abitanti musulmani di una intera area del paese attuando così una pulizia etnica.
Molti medici abbandonarono Srebrenica. Ne rimasero cinque, tra cui Ilijaz Pilav e un altro medico rimasto intrappolato mentre era venuto a trovare i suoi dopo la laurea di medicina, per una popolazione che per il gran numero di rifugiati aveva raggiunto i 40.000 abitanti.
“La città era sotto assedio sin dall’inizio, senza elettricità, senza medicine, senza materiale medico e per 2 mesi senza cibo. Noi 5 medici, con poca esperienza dovevamo risolvere ogni problema” racconta Pilav.
Quando i Serbi entrarono a Srebrenica, tre anni dopo, massacrarono uomini e ragazzi musulmani in quello che fu definito dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aia crimine di genocidio; “c’erano bombardamenti ogni notte” racconta Pilav, anche lui a rischio in quanto musulmano. “Fin dall’inizio il numero di feriti fu enorme”.
Durante l’assedio, Pilav e i suoi colleghi operarono in una sala operatoria improvvisata. Per più di un anno mancarono gli anestetici: “dalle semplici ferite alle amputazioni di arti, alle operazioni all’addome, tutto senza anestetici”.
Privi di antibiotici e di condizioni adeguate improvvisarono tecniche chirurgiche adatte alle circostanze: “fummo costretti a non applicare i protocolli per cui una ferita in guerra non deve mai essere chiusa. Non avevamo il tempo né la possibilità di attendere che le ferite si rimarginassero naturalmente, si decise di chiuderle e dopo un po’ di tempo si concluse che i risultati erano soddisfacenti”.
Nel 1993 Srebrenica fu dichiarata dalle Nazioni Unite “un posto sicuro”. Un po’ di materiale medico cominciò a passare e arrivò una equipe chirurgica dell’organismo internazionale di Médecins sans Frontières.
Pilav cerca di soffermarsi sulle storie più fortunate. Nel ‘94 ha fatto nascere con taglio cesareo una bimba prematura di 1,5 kg. Non c’erano incubatori e la mamma non poteva allattare, la bimba rimase in ospedale 6 mesi: 18 mesi fa la bambina di allora ha dato a sua volta alla luce una bambina.
“Questi episodi ci davano speranza e l’energia per continuare, benché fossero poche le storie che terminavano con esito positivo. Mio padre morì tra le mie mani”.
L’11 luglio 1995 le forze serbe attaccarono i peacekeepers olandesi delle Nazioni Unite, e Pilav approfittò dell’occasione insieme a parecchie migliaia di uomini per fuggire e cercare di raggiungere attraverso la foresta la città di Tuzla, che si trova 100 km a nord ovest di Srebrenica e che non si è mai arresa agli assalti dei Serbi. Dopo 6 giorni di fuga evitando le mine, i bombardamenti, le imboscate riuscì a mettersi in salvo.
Pilav è ora a capo della chirurgia toracica del Centro Clinico dell’Università di Sarajevo. Ha eseguito 4000 operazioni durante l’assedio di Srebrenica. I suoi occhi tradiscono la sofferenza prolungata di quell’esperienza. Dopo 23 anni dalla guerra, Pilav non riesce a entrare in quell’ospedale: “fu una cosa terribile, estrema; 17 dei miei parenti maschi vennero uccisi”.
Traduzione a cura di Aurora Bonaccorsi
aurora.bonaccorsi@guest.marionegri.it

Fonte: Vize R. Trying to heal the scars left by the war in Bosnia. BMJ 2018; 362: k3004 doi: 10.1136/bmj.k3004 (Published 10 July 2018).