EDITORIALE



Soffrire in silenzio nell’incertezza
Maurizio Bonati
Dipartimento di Sanità Pubblica
Istituto di Ricerche Farmacologiche
Mario Negri IRCCS, Milano
maurizio.bonati@marionegri.it






Il tasso di mortalità per suicidio in Italia è pari a 6 per 100mila residenti, più basso della media europea: 11 per 100mila; aumenta con l’età, passando da 0,7 nei giovani (fino a 19 anni) a 10,5 negli anziani, con valori 4 volte maggiori nei maschi rispetto alle femmine. Nella classe di età tra i 20 e i 34 anni, il suicidio rappresenta il 12% dei decessi; prima dei 19 anni è la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali
1. Questi i dati “oggettivi”, seppur sottostimati perché le cause di molte di queste morti sono spesso altrimenti classificate2.
Avere vent’anni è una bella età, forse “non la più bella” perché bella dovrebbe essere l’intera vita sebbene. “È duro imparare la propria parte nel mondo”3. Oggi i punti di riferimento sono diventati incerti, flessibili (come i sogni), l’incertezza può trasformare o accentuare una sofferenza che diventa insopportabile, costringendo anche ad un percorso con un tragico epilogo che spezza la vita a prescindere dall’età. Gesto di accusa, di tradimento, di sfida… o quel che è, e che per rispetto, anche se con dolore ed ira, accettiamo. Gesto di fronte al quale siamo tutti coinvolti e impotenti 4. La fantasia della morte o del suicidio attraversa l’adolescenza quasi fosse un passaggio obbligato, ieri e ancor più oggi. Dal 2015 al 2017 in Italia il tasso di suicidi nella fascia 14-19 anni d’età è raddoppiato1. Chiedere ad un giovane “hai mai pensato di voler morire?” sembra una domanda irrazionale o inopportuna, eppure è un quesito fondamentale (se posto nel modo e nel tempo giusti e da una persona di fiducia) per offrire e creare la possibilità di essere aiutati a combattere la sofferenza, a trovare una risorsa interna all’individuo molto sensibile, vulnerabile e che vive in solitudine un disagio esistenziale. Il 10 settembre è la giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, il 10 ottobre quella per la salute mentale. Ventotto nazioni hanno intrapreso una strategia nazionale per la prevenzione del suicidio: tra queste non c’è l’Italia 1.
Nell’attesa di azioni (anche) istituzionali… un pensiero ad Andrea, Giordano, Giulia5… che “un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo, pensarono di avere il modo di riparare a qualche torto”6.




BIBLIOGRAFIA
1. World Health Organization. Mental Health. Suicide prevention. www.who.int/mental_health/suicide-prevention/en/
2. Campi R, Barbato A, D’Avanzo B, Guaiana G, Bonati M. Suicide in Italian children and adolescents. J Affect Disord 2009; 113: 291-5.
3. Nazim P. Aden Arabia. Prefazione di Jean-Paul Sartre. Collezione Quaderni della Medusa, Milano: Mondadori, 1961.
4. Orford N. Grief after suicide. JAMA 2018; 320: 1861-2.
5. Bonati M. I naufraghi della nave dei folli. Ricerca&Pratica 2014; 30: 195-7.
6. Francesco Guccini. La locomotiva. Nell’album Radici. Milano: EMI Italiana, 1972.




MEDICINA «Pensiamo che la scienza sia obiettiva. La scienza è modellata dalla società perché è un’attività umana produttiva che richiede tempo e denaro, e dunque è guidata e diretta da quelle forze che nel mondo esercitano il controllo sul denaro e sul tempo. Le forze sociali ed economiche determinano in larga misura ciò che la scienza fa e come lo fa». Luigi Luca Cavalli-Sforza (1922), un pioniere come i grandi scienziati, fu uno dei primi a capire che lo studio comparato delle popolazioni umane – la genetica delle popolazioni – avrebbe potuto fornire delle informazioni chiave in diverse discipline. Prima studiando i fattori che modificano la distribuzione dei gruppi sanguigni tra le diverse popolazioni, poi – concentrandosi sul cromosoma Y – definì dal punto di vista genetico la teoria paleontologica dell’Out of Africa, secondo la quale i primi ominidi lasciarono il continente africano circa 100mila anni fa per poi colonizzare il resto del pianeta. Siamo quindi tutti figli di stratificazioni migratorie e la separazione dell’umanità in “razze” ben distinte non è un errore, perché la variabilità genetica umana si distribuisce in modo continuo a partire dall’Africa, dove ce n’è di più. Come gli astronomi osservano nelle galassie lontane cose accadute nel passato, così, grazie a lui, i genetisti leggono nel Dna la firma di eventi accaduti migliaia di anni fa e ne traggono la storia dei popoli.
Marcello Cesa-Bianchi (1926) ha saputo fondere le componenti scientifiche e umanistiche declinandole sia in ambito clinico che sociale. Con Cesare Musatti ha promosso e rappresentato lo sviluppo della psicologia in Italia. Rilevante il suo contributo nell’ambito della psicologia cognitiva.
Alberto Zanchetti (1926), emerito clinico, si era formato con Giuseppe Moruzzi e Cesare Bartorelli, focalizzando la sua attività, anche di ricerca, formazione, aggiornamento sia nazionale che internazionale sulla cura e prevenzione dell’ipertensione.
Guido Pozza (1928) ha dedicato la sua attività alla ricerca scientifica nell’ambito della Medicina Interna, soprattutto nel campo delle malattie endocrino-metaboliche e del trapianto di organi e tessuti. Fu un pioniere nel campo dei trapianti di isole pancreatiche per il trattamento del diabete di tipo I.
Franco Mandelli (1931), fondatore nel 1969 dell’Associazione Italiana Leucemie, ha contribuito, in particolare, alla conoscenza e alla cura del linfoma di Hodgkin e delle forme promielocitiche delle leucemie acute. Unendo l’entusiasmo e l’intraprendenza di un giovane medico bergamasco potenzia lo sviluppo dell’ematologia.
«Non si può non lavorare sulla relazione e il più presto possibile. Non tutto forse, ma moltissimo del futuro di quel bambino, si gioca lì. Il più delle volte va bene, ma altre no (i motivi possono essere molti, individuali, familiari, sociali, anche politici), e chiunque si occupa dell’infanzia, a qualsiasi titolo, non può ignorarlo.» Danielle Rollier (1937) pediatra di famiglia, attenta e generosa, già giudice onorario del Tribunale per i minorenni di Torino, attiva e propositiva nell’Associazione Culturale Pediatri (ACP) ha contribuito ad avere occhi nuovi per comprendere meglio i mutamenti in atto nelle famiglie, nei bambini e nella società e nel ruolo che conseguentemente compete al pediatra di famiglia.
ARTI E MESTIERIInge Feltrinelli (1930), editrice internazionale e capitana di ventura, ha promosso la produzione e la diffusione della letteratura, in sintonia con Giangiacomo, come militanza per la libertà.
Con Vedete, sono uno di voi (2017) ha “concluso il suo compito nella vita”. Il bergamasco Ermanno Olmi (nato nal 1931 alla Malpensata, crescito in Bovisa e a Treviglio) con L’albero degli zoccoli (prima visione tv la vigilia di Natale del ‘79) ha fornito il suo sguardo più nitido, lungimirante e ampio sul mondo, sulla vita e la morte, sull’uomo e la natura... sulla memoria.
Clara Sereni (1946) ha raccontato il Novecento (in particolare con Il gioco dei regni) attraverso la vita delle donne dei suoi romanzi. La relazione con il figlio autistico e l’impegno sulla disabilità mentale, fondando anche la Onlus “La città del sole” (vedi R&P 2017; 33: 141), sono altri temi della sua produzione letteraria e della sua battaglia civile.
“La cucina è di per sé scienza, sta al cuoco farla diventare arte” il must di Gualtiero Marchesi (1930) così come quello del suo amico, Paul Bocuse (1926), anche lui un gigante della cucina, da francese diceva: «Il nostro paese è in un enorme acquario delimitato da Mar Mediterraneo e Oceano Atlantico, con una gigantesca fattoria di pollame di Bresse, razze bovine Charolais. Da nord a sud abbiamo frutteti infiniti, un terroir ineguagliabile e nei vigneti c’è il migliore dei nostri ambasciatori. Nessun altro paese vanta queste fortune»... tolta l’Italia.




I medici devono andare ai funerali dei loro pazienti?
Devono i medici assistere ai funerali dei loro pazienti? Chiaramente non possono andare ai funerali di tutti i loro pazienti. Dopo tutto la morte è un fatto comune, le ore di lavoro sono poche e gli aspetti economici non sono irrilevanti.
Forse si potrebbe assistere almeno ai funerali di qualche paziente? Per anni la mia risposta era sempre stata un “no” netto: dopo tutto il funerale appartiene ai familiari, non al personale sanitario, che deve mantenere una certa distanza dai pazienti per non essere coinvolto da emozioni che potrebbero interferire con l’efficacia delle cure.
Ma i funerali sono di solito pubblici, anche se profondamente personali. E come rispondere se si è invitati?
Non bisogna rispondere negativamente a un invito solo per non sembrare ingiusti nei confronti di funerali di pazienti ai quali non si partecipa. La vita è imprevedibile, dipende da come si svolge, e nessuno ne esce fuori vivo. Si fa quel che si può. Una ingiunzione di non assistere può essere tanto senza senso quanto una che imponesse di assistere a tutti i funerali.
I funerali sono riti e i riti sono importanti. Il corpo del defunto viene vestito e preparato, per essere esposto ad accogliere i visitatori.
Il funerale ci offre la possibilità di riflettere su una vita vissuta, condividendo il lutto. Nella tradizione ebraica della keriah ci si straccia i vestiti per simbolizzare lo strappo che la morte produce nella famiglia. I partecipanti possono indossare abiti neri o no, secondo le abitudini familiari, possono portare fiori gialli o cantare canzoni preferite.
Si può raccontare la vita del defunto, suonare della musica, ricordare episodi tristi o divertenti. Il corpo può essere seppellito o cremato. La brutalità della fine della vita si impone per farci pensare alla nostra mortalità.
Ci sono composizioni floreali, donazioni e spesso si offrono cibo e bevande. Le emozioni si sommano e trascinano.
I funerali coincidono spesso con riti religiosi dedicati al morto, ma servono soprattutto per confortare i vivi.
Un medico che assiste a un funerale può sentirsi parte di una comunità e derivarne un grande conforto.
I medici non sono immuni dalle emozioni, ma sono poche le occasioni per condividerle.
Dai colloqui che ho avuto, è piuttosto frequente la presenza di infermieri ai funerali dei pazienti che hanno conosciuto bene. Mi chiedo se è la distanza professionale che tiene i medici lontani dai funerali e se questo è un bene.
Quando ho iniziato come medico di base si usava visitare a casa le nuove madri con il proposito che tutto andasse bene, sebbene potesse essere considerato non necessario in una logica di gestione aziendale. Ma si trattava anche di stabilire o proseguire una relazione. Ora come conseguenza dell’aumento della pressione lavorativa e della mancanza di tempo questo compito viene svolto da altri.
Queste visite erano un rituale, un’occasione per interrompere le altre attività giornaliere e mettere in contatto il medico con la comunità con la quale e per la quale lavorava. La pratica medica va verso una intensificazione a discapito della continuità dei rapporti. Mi chiedo se abbiamo bisogno di un po’ più di rituali per sostenerci.
Tratto da: McCartney M. Should doctors go to patients’ funerals? BMJ 2018; 362: k2865.
doi: 10.1136/bmj.k2865.




L’importanza di essere presenti ai funerali dei pazienti
Nella mia carriera di pediatra ho partecipato a molti funerali. Ho assistito, sia in ambulatorio che in ospedale, 28 bambini affetti da distrofia epidermolisi recessiva bullosa (RDEB) e accompagnato 12 funerali. Questi funerali celebravano vite piene di significati, di grandi gioie e grandi dolori per i loro amici e le loro famiglie, e che avevano fatto del mondo un luogo migliore più capace di tolleranza e reciproca comprensione. A due funerali quasi tutti indossavano qualcosa di rosa, colore preferito dalle ragazze. In un altro tutti indossavano T shirt con Batman, il supereroe amato dai ragazzi. In un altro, la chiesa era un mare di Bronco arancione perché il calcio era la passione del ragazzo. In altri abbiamo appreso di come un ragazzo sapeva immedesimarsi nel ruolo di un comico, di come una ragazza amasse le corse a cavallo (il suo cavallo era lì fuori per accogliere le persone che entravano in chiesa), e della passione di un’altra per preparare le lasagne. La partecipazione ai funerali ci ha aperto nuove prospettive sulle vite di ragazzi affetti da una malattia terminale, ma ci ha anche aiutato a convivere con le nostre frustrazioni: perché non avevamo fatto di più per alleviare le sofferenze dei nostri pazienti, e ritardarne la morte? Abbiamo capito fino in fondo come e perché, nonostante la terribile malattia e le sofferenze, questi ragazzi erano stati portatori di gioia per i loro genitori e amici: tutta l’equipe ha avuto la soddisfazione di constatare che le nostre cure e il nostro sostegno avevano contribuito a quella gioia. Essere presenti per l’ultimo saluto ai bambini è stato un gesto molto apprezzato. L’infermiera capo della nostra equipe mi ha inviato il seguente messaggio: “Certo, non avrei mai voluto essere al loro posto: però far crescere un bambino con la epidermiolisi bullosa, vivere accanto a lui e cercare di renderne meno pesante la malattia sono un onore e un privilegio”. I medici in formazione, che si prendono cura di bambini malati terminali e stabiliscono una relazione positiva con i familiari, avranno sentimenti simili e faranno bene ad essere presenti ai funerali. Quando tutti i componenti delle equipe assistenziali presenziano ai funerali dei pazienti, si crea l’opportunità di un supporto reciproco e di una condivisione profonda di sentimenti di inadeguatezza, fallimento, colpa e rabbia. Due medici tirocinanti mi accompagnarono ai funerali di un bimbo che avevamo curato: i genitori ne percepirono l’importanza e sentirono la loro partecipazione come una conferma del senso che avevano avuto la cura e l’attenzione che insieme avevano assicurate al bambino.
Ogni funerale è stata un’occasione per ricordare l’intensità dei legami con i bambini e le loro famiglie. C’erano state le visite a casa per i compleanni o le festività, la partecipazione agli incontri di football del Bronco e a quelli di basket dei Nuggets, i viaggi in treno per andare agli incontri invernali dei “Camp Spirit” con sci e slittini e infine la cerimonia dei diplomi liceali. Per curare i bambini con RDBE si è andati ben oltre le tradizionali cure dei servizi medici. Occuparsi delle loro vite al di fuori dell’ospedale ha costruito legami di fiducia essenziali per migliorare le cure e l’assistenza e nello stesso tempo ci ha aiutati a essere meno rigidi negli appuntamenti medici. Abbiamo voluto anche che i pazienti più grandi aiutassero i più piccoli a convivere con RDEB, e per questo li invitammo a collaborare alle riprese di un video su l’epidermolisi bullosa (EB), che la Dystrophic Epidermolysis Bullosa Research Association distribuisce tuttora nelle scuole di tutto il mondo. Per offrire la migliore cura ai bambini malati, la nostra equipe EB ha dovuto coinvolgere, con grande successo, organizzazioni che non avevano esperienza di RDEB: Medicaid (copertura di alti costi per i bendaggi, supplementi di Vitamina D e di speciali tipi di ferro, scooters e sedie a rotelle, e visite alle cliniche EB anche per pazienti che venivano da fuori); l’ospedale (cambio dei bendaggi e igiene del corpo in ospedale e attenzione particolare per evitare contagi dello Stafilococco aureo resistente alla metilpennicillina); fornitori di materiale medico (fasce non adatte e tubi gastrici insufficienti); agenzie che forniscono personale per cure a domicilio (difficoltà alla richiesta di infermiere per il cambio dei bendaggi); compagnie aeree (rifiuto a far volare i pazienti); scuole (rifiuto di programmi educativi individualizzati e di un tecnico specializzato; senza un aiuto competente per problemi di mobilità nessuna possibilità per i pazienti di frequentare la scuola). È stato difficile ma necessario fare di tutto per ridurre lo stigma della malattia a livello scolastico. Di fronte a una diagnosi che condanna e lascia poco spazio a qualsiasi cosa che non sia la sofferenza, l’obiettivo centrale deve essere quello di ridare il massimo della qualità della vita. Siamo riusciti a raccogliere denaro per acquistare iPad, servizi Internet, insegnanti di Yoga, vasche da bagno adeguate, climatizzatori, al di là di bendaggi, medicazioni, vitamine. Quando le condizioni della malattia peggioravano, il paziente, circondato dalle persone che lo amavano, veniva trattato con cure palliative per una morte tranquilla, rispettosa, indolore.
Per diversi anni, una volta al mese, ho incontrato i tirocinanti del primo anno di pediatria nel loro training di advocacy. In questi incontri mi si chiedeva spesso in che modo mi ero fatto coinvolgere dai bambini affetti da RDEB e spesso le nostre discussioni finivano per trasformarsi nel se e nel come è possibile non essere troppo emotivamente coinvolti con la morte dei bambini e con i loro familiari. Non sapevano come avrebbero reagito quando si fossero trovati a dover accudire bambini che fossero andati incontro a tanto dolore e sofferenza. È stata per me una priorità aiutare i tirocinanti a gestire questo tipo di situazioni cliniche dato che avevo sperimentato le stesse difficoltà durante il mio tirocinio.
Un coinvolgimento diretto senza barriere dei docenti nelle paure e nelle domande dei giovani in formazione è essenziale per fare del loro timore del morire una opportunità di miglioramento anche delle cure mediche. Purtroppo le esperienze e le ricerche in questo settore sono scarse. Non c’è dubbio che la storia di forte partecipazione della nostra equipe EB è stata in un certo senso esemplare. La morte e il morire non possono essere oggetto di seminari. La condivisione della propria storia nella concretezza della ricerca quotidiana sul come sostenere e farsi carico di pazienti e familiari costituisce evidentemente un percorso molto più efficace. Devo riconoscere al di là di quanto detto finora che è solo da molto poco che mi sono reso che la presenza ai funerali dei nostri pazienti (e l’incoraggiamento ai colleghi in formazione a parteciparvi) era un elemento particolarmente importante di questo percorso. Ad ogni funerale cresceva la percezione di quanto fosse rilevante aiutare genitori e famiglie ad attraversare vite tanto abbreviate. Credo anche che dei giovani medici in formazione possano condividere quanto questa percezione sia essenziale per la crescita di una professionalità pediatrica responsabile.
Tratto da: Berman S. The importance of attending patient funerals. Pediatrics 2018;
142: e20173977.
Traduzione a cura di Aurora Bonaccorsi
aurora.bonaccorsi@guest.marionegri.it