Fornire risposte adeguate a bisogni di salute

Le cure primarie – come si legge nella Dichiarazione di Alma Ata – rappresentano “il primo livello di contatto degli individui, delle famiglie e della comunità con il sistema sanitario del Paese, portando l’assistenza sanitaria quanto più vicino è possibile a dove la popolazione vive e lavora e costituendo il primo elemento di un processo continuo di assistenza. È questo il livello dove emergono e si manifestano i bisogni di salute della popolazione, e dove il sistema sanitario dovrebbe organizzare un’offerta adeguata di servizi primari, atta a soddisfare quei bisogni.
L’enorme sfida che le cure primarie si trovano oggi ad affrontare è proprio quella di riuscire a dare risposte adeguate a bisogni di salute sempre più complessi.
Le cure primarie si devono poi confrontare con il fenomeno delle migrazioni, non tanto per via di inesistenti pericoli infettivi, quanto per la necessità di riuscire a interloquire con culture diverse, per affrontare in modo corretto i problemi di salute delle persone provenienti da quelle culture, per l’urgenza di garantire a tutti, ma proprio a tutti, il diritto alle cure e alla salute.
Di fronte alla complessità dei bisogni – quando la situazione clinica è spesso aggravata dalla povertà e dall’isolamento sociale, quando gli stessi pazienti spesso stentano, o addirittura rinunciano, a manifestare le proprie necessità – le cure primarie devono attrezzarsi diversamente, devono innovare la loro organizzazione, tenendo conto che non sarà la tecnologia a trainare l’innovazione, come avviene nelle discipline specialistiche, bensì le scelte di politica sanitaria, la preparazione e la dedizione dei professionisti. La ricetta per far fronte alla sfida è apparentemente semplice: i bisogni complessi vanno affrontati mettendo in campo, in maniera coordinata, tutte le risorse necessarie per soddisfare le varie componenti – cliniche, assistenziali, sociali, talora anche culturali – di quei bisogni. Ciò richiede un’integrazione “orizzontale”, ad esempio team multiprofessionali delle cure primarie, e un’integrazione “verticale” tra differenti livelli di cura (cure primarie e cure specialistiche) e anche tra differenti livelli istituzionali, ad esempio il coinvolgimento dei Comuni, per garantire la qualità e la continuità dell’assistenza. A ciò va aggiunta la “sanità di iniziativa”.
Innovare le cure primarie per dare risposte efficaci a bisogni complessi è possibile e fattibile, come testimoniano le “buone pratiche” – nazionali e internazionali – riportate nel libro, pur essendo esperienze ancora minoritarie.
Le resistenze ai processi di integrazione e di proattività che impediscono l’innovazione delle cure primarie sono molteplici e provengono da diverse direzioni. La più nota, e per certi versi scontata, è la tradizionale, indiscussa centralità dell’ospedale: negli investimenti, nelle assunzioni, negli affari, nella percezione dei politici, degli amministratori, della maggioranza degli operatori sanitari e della popolazione. L’importante è che l’ospedale funzioni; tutto il resto viene dopo, ma molto dopo.
Che cos’altro impedisce il rinnovamento delle cure primarie? Certamente la lentezza con cui la politica sanitaria ha affrontato la questione della cronicità. In Italia il Piano nazionale della cronicità – contenente importanti innovazioni nell’organizzazione delle cure primarie – è stato approvato nel 2016, con almeno quindici anni di ritardo rispetto a quanto veniva pubblicato al riguardo in ambito internazionale, ed è tuttora quasi dovunque inattuato.



Anche la formazione universitaria, troppo focalizzata sullo studio delle singole malattie e poco interessata a occuparsi dei problemi delle persone e della complessità dei percorsi assistenziali, rappresenta un serio ostacolo all’innovazione delle cure primarie. In Italia la situazione è ulteriormente aggravata a causa della mancanza – caso quasi unico al mondo – della disciplina accademica della Medicina di famiglia.
Le resistenze ai processi di integrazione e di proattività e all’innovazione delle cure primarie provengono, infine, dal mercato. Il mondo del privato far profit (e anche del privato low profit, ossia del privato sociale) vede nella cronicità una ghiotta occasione di business. Ma è un mondo composto da una miriade di gestori e di erogatori di prestazioni, ognuno dei quali interessato a realizzare la propria parte di utile, dove i concetti di presa in carico e di integrazione sono pressoché sconosciuti.
La sfida che le cure primarie devono affrontare è quindi enorme. Il suo esito tuttavia non riguarda solo queste ultime, ma l’intero sistema sanitario e la sua capacità di esercitare pienamente ed efficacemente le sue funzioni di prevenzione e di cura.
Ecco di tutto questo si parla nel libro il cui scopo è quello di dimostrare che l’innovazione nel campo delle cure primarie è possibile e per farlo sono riportate – nella parte seconda e terza del volume una serie di esperienze, nazionali e internazionali, che mostrano i successi, ma anche le difficoltà e gli ostacoli, nel raggiungere gli obiettivi strategici che vengono indicati e sviluppati nella parte prima: l’equità nella salute e la lotta alle disuguaglianze, la medicina di prossimità e la centralità della persona, la gestione integrata e proattiva dei servizi e la creazione dei team multiprofessionali e multidisciplinari, la capacità di valutare i risultati, la necessità di una profonda innovazione nel campo della formazione.
Gavino Maciocco
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