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Richiesta di autorizzazione del rituximab originatore nelle indicazioni onco-ematologiche


Il rituximab è stato uno dei primi anticorpi monoclonali (mAbs) utilizzato come terapia antineoplastica dei linfomi ed è diventato rapidamente lo standard of care. Il meccanismo d’azione del rituximab si basa sulla deplezione dei linfociti B mediata dal legame selettivo dei recettori CD20 espressi da queste cellule. Tale farmaco è stato approvato nel 1997 ed entrato in commercio nel 1998 negli Stati Uniti e nell’Unione Europea con le seguenti indicazioni: leucemia linfatica cronica; linfoma Non-Hodgkin; artrite reumatoide; alcuni tipi di vasculiti.
Il rituximab è attualmente disponibile come formulazione da somministrare per via endovenosa (rituximab 100 mg e rituximab 500 mg, concentrato da diluire in soluzione per infusione) e come medicinale da somministrare per via sottocutanea (rituximab 1400 mg, soluzione per iniezione sottocutanea). In ogni caso, anche quando viene prescritta la somministrazione per via sottocutanea, la prima somministrazione deve essere adottata per via endovenosa.
Alla luce delle evidenze raccolte negli studi post marketing e di quanto la Food and Drug Administration ha già autorizzato, si può sostenere che l’infusione rapida di 90 minuti del rituximab, per le dosi successive alla prima, sia una pratica efficace e sicura per il paziente e i cui vantaggi sono:
il tempo di somministrazione del trattamento si dimezza da circa 180 a circa 90 minuti con notevoli vantaggi non solo per il paziente ma anche per l’organizzazione in termini di minore carico assistenziale;
più pazienti, nell’arco della giornata, possono utilizzare la stessa poltrona per la somministrazione di farmaci;
l’uso del biosimilare è facilitato nei centri che prescrivono rituximab, senza alcun impatto negativo sulla qualità di vita dei pazienti.
La nota sulla somministrazione di rituximab originatore e biosimilare per via endovenosa in 90 minuti dalle infusioni successive alla prima è disponibile on line sul sito dell’AIFA e inserita nelle liste 648 con uso consolidato relative al trattamento di:
tumori pediatrici
[www.aifa.gov.it/documents/20142/1072539/
ALL-2_ONCOLOGIA-PEDIATRICA_22.11. 2019.pdf/4624e142-8556-13e0-6740-69d38fd99c0 d]
neoplasie e patologie ematologiche dell’adulto
[www.aifa.gov.it/documents/20142/1072539/
ALL-3_ONCOEMATOLOGIA_22.11. 2019.pdf/7d944448-70ee-500a-7726-9cb38dc3cf62]
immunosoppressione nei pazienti trapiantati
[www.aifa.gov.it/documents/20142/1072539/
ALL-5_TRAPIANTI_22.11.2019.pdf/3e4f 910c-db21-8a17-cb4a-a475f76cd48a].

Il riferimento è quindi la scheda tecnica del rituximab (originatore e biosimilare) prodotta in USA da FDA, (sezione 2 “Dosage and administration” paragrafo 2.1), in cui è consentita la somministrazione per via endovenosa in 90 minuti, dalla seconda infusione, se durante la prima infusione non si sono verificati eventi avversi correlati di Grado 3 o 4.
Nello specifico, la prima quota pari al 20% della dose viene somministrata nei primi 30 minuti e il restante 80% nei 60 minuti successivi.
Tale indicazione posologica è valida per tutti i pazienti ematologici ad eccezione dei pazienti affetti da patologie cardiovascolari o con un numero di linfociti circolanti superiori a 5000/mm 3.
Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari
della Provincia Autonoma di Trento
www.apss.tn.it; apss@pec.apss.tn.it





Per un universalismo potenziato ed esteso
Un approccio per il riordino dei fondi sanitari integrativi

DELLA NECESSITÀ DI UN RIORDINO
Negli ultimi mesi la complessa materia della sanità integrativa è ritornata ad essere parte del dibattito sulle politiche sanitarie del nostro paese.
Il 18 dicembre scorso, nella risposta all’interpellanza della on. Nappi sulle misure da adottare per assicurare il principio della trasparenza in materia di sanità integrativa e per riportare i fondi sanitari nell’alveo degli enti non profit, la Sottosegretaria Zampa affermava:
“…In questi ultimi anni l’Anagrafe (dei fondi sanitari, istituita presso il Ministero della Salute) sta procedendo… ad ampliare l’ambito delle verifiche, tramite specifici e attenti riscontri incrociati fra la certificazione prodotta in merito all’erogazione delle prestazioni extra Livelli Essenziali di Assistenza e i bilanci e i nomenclatori trasmessi dai fondi sanitari, chiedendo, qualora risultasse necessario, ulteriore documentazione e note integrative a firma dei legali rappresentanti... Per quanto riguarda la salvaguardia dei principi di trasparenza… possiamo senza alcun dubbio affermare che il Ministero è assolutamente consapevole della necessità di dover porre in essere ancor di più misure di tutela dei cittadini finalizzate ad assicurare maggiore accessibilità e maggiore trasparenza. Concludo anticipando che con i risultati ottenuti a seguito delle iniziative adottate e attraverso l’esperienza maturata nella gestione dell’Anagrafe fondi sanitari, il Ministero ha potuto approfondire compiutamente la tematica che oggi affrontiamo, a cui sono seguite proposte di riordino della normativa inserite nel nuovo Patto della Salute, in fase di adozione" (cfr Quotidianosanità 19 dicembre 2019).
Nel medesimo giorno poi, Governo e Conferenza delle Regioni firmavano la versione definitiva del Patto, riportando e integrando la Scheda 9, e indicando in modo esplicito che:
“Si conviene di istituire un gruppo di lavoro con una rappresentanza paritetica delle Regioni rispetto a quella dei Ministeri, che, entro sei mesi dalla sottoscrizione del patto, concluda una proposta di provvedimento volta all’ammodernamento e alla revisione della normativa sui fondi sanitari ai sensi dell’articolo 9 del Dlgs 502/1992 e smi, e sugli altri enti e fondi aventi finalità assistenziali, al fine di tutelare l’appropriatezza dell’offerta assistenziale in coerenza con la normativa nazionale, di favorire la trasparenza del settore, di potenziare il sistema di vigilanza, con l’obiettivo di aumentare l’efficienza complessiva del settore a beneficio dell’intera della popolazione e garantire un’effettiva integrazione dei fondi con il Servizio sanitario nazionale. Si conviene di procedere ad un’analisi degli oneri a carico della finanza pubblica”.
Quanto di tutto ciò verrà realizzato nel corso di questa Legislatura è difficile da pronosticare. Di certo un ulteriore rinvio del riordino sarebbe alquanto deleterio, da molti punti di vista e per molti stakeholder, in primis i cittadini iscritti o non iscritti ai fondi.
Nel decennio che ci separa dai Decreti Turco e Sacconi (per cui meriterebbe una riflessione seria su quanto siano/non siano stati applicati) sono nati o si sono sviluppati molti fondi, è aumentato il numero degli assicurati soprattutto per via contrattuale, alcune assicurazioni hanno assunto un ruolo predominante nel mercato “ri-assicurativo” e/o di servizio ai fondi stessi, ecc. Tali incrementi non sono però stati accompagnati da un altrettanto aumento della contribuzione da parte degli assicurati e/o dei datori di lavoro. In altri termini il livello di copertura media per assicurato si è ridotto ed è aumentata la differenziazione interna tra chi è più o meno coperto.
Tutto questo in assenza di una regolamentazione che, come ha dichiarato da ultima la Sottosegretaria, abbia garantito trasparenza economico-finanziaria e contrattuale tra i diversi attori, accountability delle attività svolte, finalizzazione delle prestazioni garantite, interazione fattiva con i SSR, integrazione con la previdenza complementare, ecc.
Per un cambio di rotta, e in questo senso l’azione intrapresa dall’Ufficio Anagrafe del Ministero fa bene sperare, non si può eludere la necessità di una assunzione consapevole/potenziamento – ovvero: attivazione, o riattivazione, di conoscenze, procedure e regolazioni efficaci – della funzione di governo/governance della sanità plurale – pubblica, intermediata, out of pocket e sociosanitaria – da parte dello stesso Ministero nonché delle Regioni, in partecipazione con i principali stakeholder coinvolti – Parti sociali, Rappresentanze dei cittadini, Players del settore, ecc.
Compito ancora alquanto impegnativo, visti i tratti caratterizzanti del dibattito scientifico e politico:
con dati deboli, in alcuni casi poco attendibili (es. tax expenditures o accountability di alcuni fondi sanitari integrativi);
interpretazioni discutibili, spesso carenti sul piano della scientificità, ovvero del corretto inquadramento delle policies implicate (es. sostenibilità/non sostenibilità del SSN, welfare aziendale, ecc.);
posizioni scarsamente evidence based, caratterizzate dalla volontà di affermazione di legittime posizioni valoriali, ma anche a rischio di alto tasso di ideologizzazione;
disallineamento dei centri di discussione e decisionali relativi a tali politiche, con una marginalizzazione della funzione di indirizzo del Ministero della Salute e delle Regioni, a seguito delle politiche di contenimento della spesa pubblica e non solo.
In ogni caso, lo ribadiamo, da affrontare senza tergiversare, anche per la coincidenza di almeno quattro fattori/esiti che, oltre alle indicazioni del nuovo Patto per la Salute, incideranno sulla sanità plurale nel breve/medio periodo:
i risultati dei lavori della Commissione di indagine sui fondi sanitari integrativi, in fase conclusiva presso la Camera dei Deputati;
l’assetto che prenderà il regionalismo differenziato, sia sul piano della sanità pubblica come su quello della assunzione di competenze – come a suo tempo richiesto da alcune Regioni – anche in tema di regolazione dei Fondi sanitari integrativi;
l’implementazione della Riforma del Terzo settore, dal punto di vista: del regime fiscale che riguarderà gli attori ad esso riconducibili (es. Società di mutuo soccorso); dello sviluppo della impresa sociale in ambito sanitario e sociosanitario; dei livelli e della qualità della occupazione garantita (ultimi dati Istat segnalano oltre 180 mila lavoratori/trici delle istituzioni non profit operanti in sanità e 500 mila operanti nel sociosanitario e socioassistenziale);
le correlate determinazioni prese in sede di Legge di Bilancio 2020, in termini di finanziamento/ri-finanziamento del SSN.
Tenuto conto di questa premessa, le note che seguono intendono contribuire a tale discussione fornendo alcune osservazioni/proposte maturate in una delle sessioni realizzate durante la XIV edizione del Forum Risk Management a novembre scorso a Firenze.

UN CONFRONTO PRELIMINARE SULL’IDEA DI UNIVERSALISMO
La prima. Un confronto preliminare/parallelo sui significati e sulle condizioni attuative dell’universalismo sanitario/sociosanitario, oltre che necessario in sé, è utile a evitare non pochi bias cognitivi che attraversano tale discussione pubblica. Da evidenziare che:
in dottrina abbiamo diverse concettualizzazioni dell’idea di universalismo:
assoluto; basato sul principio della piena uguaglianza di ogni essere umano nella titolarità e fruibilità di un bene-servizio;
elettivo; basato sulla logica delle discriminazioni positive, ovvero del recepimento della diversità presenti tra gli esseri umani;
selettivo; basato sull’idea di una protezione non categoriale, vincolata però alla prova dei mezzi per quanto riguarda la priorizzazione delle risposte dal dare ai beneficiari effettivi;
proporzionale; basato sulla combinazione di misure universali con misure selettive, che forniscano un ulteriore supporto ai gruppi più svantaggiati e quindi con maggiori esigenze;
così come nella prassi (italiana) riscontriamo:
– una rilevante differenziazione di accessibilità/fruibilità delle prestazioni sanitarie (con una differenza crescente tra regioni “mini Lea” e regioni “super Lea”), e tanto più sociosanitarie (continuità assistenziale, ADI, Assistenza domiciliare sociale, ecc.);
– una divaricazione nella esigibilità tra prestazioni (sanitario) e trasferimenti monetari (sociosanitario);
– forti iniquità nel finanziamento, correlate alle criticità del nostro sistema fiscale di riuscire a far contribuire secondo quanto dovuto
– la frammentarietà delle misure di tax expenditures.
Detto ciò, la proposta che formuliamo rinvia/si basa su una visione sistemica e insieme pragmatica, coerente con i principi della nostra Costituzione e con quanto stabilito nell’ordinamento comunitario, che possiamo definire, parafrasando l’art. 9 del 502/92, di universalismo potenziato ed esteso. Essa comporta un’evoluzione del modo di pensare ruolo e funzione delle istituzioni sanitarie, chiamate a garantire l’interesse pubblico non solo attraverso le proprie articolazioni e in collaborazione e a supporto degli EE.LL., ma pure a coordinare, attraverso modalità di governance pubblica, l’insieme degli attori privati profit e non profit nel perseguimento dell’interesse generale, quale è la tutela e la promozione della salute. Questa visione recepisce che l’idea di universalismo sia appunto costitutivamente pluralistica, ovvero assuma nella dottrina e nella prassi più declinazioni: a partire dai diversi paradigmi di welfare (a la Beveridge o a la Bismark, per usare una categorizzazione tra le molte); così come nella sua diversificata applicazione italiana – ad esempio in campo educativo (obbligo scolastico), assistenziale (livelli essenziali effettivamente esigibili), lavoristico (obblighi di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) e ovviamente sanitario.

PER UNA PERIMETRAZIONE EVIDENCE BASED 
La seconda. Ineludibile per lo sviluppo della proposta è altresì la condivisione di un base conoscitiva – temi, indicatori, metodologie, ecc. – che garantisca la valutazione sincronica e diacronica, comparativa internazionale, nazionale e regionale, delle policies che si intendono implementare. Al contempo, essa deve essere alimentabile da fonti attendibili e aggiornate, così da poter garantire anche il monitoraggio/valutazione in itinere degli interventi previsti.
Tenuto conto che si tratta di dati epidemiologici, di consumo, di spesa, di fonti di finanziamento, ecc. altamente differenziati e imputabili a fonti/data base altrettanto differenziate, è necessario che questo avvenga attraverso una procedura partecipata (sull’esempio della Consensus Conference) promossa dal Ministero della Salute, che produca indicazioni/raccomandazioni per i decision maker condivise dai diversi stakeholder coinvolti.
I dati di spesa, in particolare, oltre al valore in sé, rappresentano buoni indicatori dei comportamenti di consumo, delle strategie di offerta, dell’impatto delle misure di sostegno o di ostacolo, delle condizioni sociali di chi consuma, delle in-equità di accesso alle prestazioni, ecc.
La suddivisione netta tra spesa pubblica, intermediata da fondi integrativi o da assicurazioni private, e out of pocket, rischia però di nascondere i fenomeni di ibridazione del finanziamento sanitario e sociosanitario. Basti pensare, nel quadro della spesa per protezione sociale – sanità, assistenza e previdenza –, alla fortissima incidenza dei trasferimenti monetari pubblici. La difficoltà di ricostruire i flussi attraverso cui risorse pubbliche divengono private (dai trasferimenti monetari alla spesa out of pocket), e viceversa (tax expenditures), è un dato oggettivo. Tale inquadramento, seppur costruito attraverso proxy, è indispensabile sia per offrire una comprensione adeguata dei fenomeni considerati che per ipotizzare soluzioni sostenibili di intervento pubblico.
Insieme ai dati di spesa, altrettanto rilevante è la condivisione di un nomenclatore delle prestazioni a cui essi si riferiscono. Possiamo, in prima istanza, individuare le seguenti tipologie:
– beni e servizi inclusi nei Lea;
– beni e servizi aggiuntivi (per scelte regionali) dei Lea;
– beni e servizi inclusi nei Lea non esigibili (per problemi di copertura territoriale);
– beni e servizi esclusi dai Lea riconosciuti come meritori (sostenuti indirettamente con diverse misure di agevolazione fiscale);
– beni e servizi esclusi dai Lea e non considerati meritori.
Sapere quanto si spende, chi paga e per che cosa, è, in sintesi, condizione per un diverso governo/governance della sanità/sociosanitario integrativo del nostro Paese.

UN SALTO CULTURALE INELUDIBILE PER LA SANITÀ PUBBLICA
La terza. Il cammino che ha portato alla nascita del SSN e accompagnato poi la sua implementazione; il suo disallineamento con le politiche assistenziali e, più in generale, con il welfare esteso (politiche del lavoro, educative, ecc.); nonché la crisi economico finanziaria che ha colpito il Paese a partire dal 2007/8; hanno condizionato la funzionalità delle istituzioni sanitarie e sociosanitarie, vincolando i diversi (multilevel) centri decisionali e operativi a misurarsi con un quadro, per usare un ossimoro, di emergenza permanente del SSN e, seppur con gradazioni diverse, dei vari SSR. Ciò ha determinato una attenzione tutta rivolta all’interno/al solo servizio pubblico, riducendone la sua disponibilità/capacità di intervenire/coordinare le altre componenti della sanità operanti nel Paese. Per affrontare il riordino della sanità integrativa, nel quadro delle problematiche richiamate, serve uno sguardo istituzionale diverso capace di comprendere (nel senso etimologico del termine) la pluralità di attori e flussi che caratterizza la sanità italiana. In altri termini, le politiche sanitarie pubbliche non possono essere ridotte alle sole politiche del SSN, pena la permanenza o il peggioramento dello stato di crisi dello stesso.

FARE GOVERNANCE DI SISTEMA: SUL RUOLO DEL SSN E DEI SSR
La quarta. L’attivazione di una governance che favorisca una strategia comune/integrativa tra SSN, SSR e Fondi sanitari integrativi (e Fondi previdenziali complementari) deve essere concentrata su due tipi di consumi sanitari:
beni e servizi inclusi nei Lea ma non esigibili (per problemi di copertura);
beni e servizi esclusi dai Lea riconosciuti come meritori (sostenuti indirettamente con diverse misure di agevolazione fiscale).
Si tratta di due aree di bisogno-domanda-consumo (in particolare: l’assistenza odontoiatrica non prevista nei Lea e l’assistenza socio-sanitaria rivolta ai soggetti non autosufficienti al fine di favorire l’autonomia e la permanenza a domicilio) dove l’attuazione universalistica dimostra seri limiti e dove è prioritario individuare soluzioni fattive nella prospettiva del suo potenziamento e della sua estensione.
Nel campo dei bisogni/domande sanitarie e sociosanitarie, insieme:
– alla erogazione diretta di prestazioni e servizi (Lea),
– ai trasferimenti monetari (indennità e sussidi),
– alla regolamentazione sulla erogazione delle prestazioni e servizi erogati da soggetti privati convenzionati o meno con il servizio pubblico (autorizzazioni e certificazioni varie),
per riconoscere la meritorietà di prestazioni e servizi non erogati direttamente dal sistema pubblico, lo Stato, e in misura diversa le Regioni e i Comuni, ha a disposizione la leva fiscale. Più che una forma di incentivazione dello sviluppo di aree di mercato, proprio per le caratteristiche dei bisogni/domande interessate e per il valore sociale che le conseguenti risposte assumono, tale leva deve essere riconosciuta come uno strumento, complementare agli altri, per la promozione di una politica pubblica finalizzata alla esigibilità dei diritti dei cittadini e delle cittadine. Al contempo, nel quadro di un assetto economico-finanziario dello Stato che non lascia margini per un non utilizzo efficiente/efficace di tutte le risorse disponibili (in questo caso tax expenditure ed evasione fiscale), tale finalizzazione è da considerarsi un modo per ridurre sprechi e utilizzi impropri.
Garantire forme di partnership finalizzate alla continuità tra le diverse forme di offerta pubblica e privata, non solo è costituzionalmente dovuto ma è altresì un’ineludibile soluzione per un miglior uso delle risorse pubbliche, visti i costi diretti e indiretti che l’assenza di tali misure riversa sul SSN (accessi ai PS, ricoveri, consumi di farmaci, ecc.). Inoltre, al fine di ridurre le duplicazioni delle prestazioni Lea, ovvero di potenziare tali coperture li dove risultassero non esigibili, tenendo conto di non poche esperienze aziendali – Asl e di alcuni (tentativi di) percorsi di policies regionali già in essere – si tratta di costruire un quadro strutturato per l’erogazione verso gli assicurati dei Fondi sanitari integrativi di prestazioni specialistiche ambulatoriali in intramoenia o da parte del privato accreditato.
Il ruolo di governance – ovvero di: coordinamento, controllo e regolazione degli attori; informazione e comunicazione alla cittadinanza; allargamento delle basi associative del sistema mutualistico (società di mutuo soccorso) e contrattuale (fondi contrattuali e similari); finalizzazione del contributo di questi attori ad obiettivi di interesse generale – è quindi da concepire come responsabilità/ esercizio pieno dei propri compiti di tutela della salute e del benessere della cittadinanza tutta, ed è traduzione pratica di quanto richiamato in tema di capacità di una visione complessiva dei fenomeni presenti e interagenti.

IN CONCLUSIONE: PROMUOVERE SOCIAL INNOVATION
Possiamo rideclinare quanto sostenuto facendo nostro l’approccio, a cui la Commissione Europea risulta fortemente legata, della social innovation. Con tale (quasi) concetto si definisce, tra le molte possibili, la ricerca di nuove soluzioni (prodotti, servizi, modelli, mercati, processi, ecc.) in grado di soddisfare un bisogno sociale (in modo più efficace rispetto alle soluzioni esistenti) attraverso relazioni nuove (o migliorate) e lo sfruttamento innovativo di beni e risorse.
Per raggiungere questi obiettivi, particolare attenzione deve essere rivolta alla dimensione cognitiva, all’apprendimento e socializzazione di nuove cornici interpretative e di processi analitici dei fenomeni, prassi, visioni che internamente o esternamente lo riguardano nell’espletamento delle sue funzioni. Uno Stato innovatore è necessariamente uno Stato enabling, in grado cioè di promuovere opportunità e condizioni per ampliare e redistribuire il potere di mobilitare e negoziare le chiavi interpretative, di rielaborare problemi e soluzioni più o meno cristalizzati, naturalizzati e reificati.
Il riordino della normativa dei fondi è un’occasione per dimostrarlo.
Massimo Campedelli
Professional affiliate
Istituto Dirpolis,
Scuola Sant’Anna, Pisa
massimocampedelli@gmail.com
Enrico Desideri
Presidente Fondazione Sicurezza in Sanità – Arezzo
presidente@fondazionesicurezzasanita.it




Lo smantellamento dell’accoglienza
Rapporto Osservatorio Naga 2019

Il titolo del terzo Report dell’Osservatorio del Naga, pubblicato a dicembre 2019, parla da solo: “Senza (s)campo. Lo smantellamento del sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. Un’indagine qualitativa”. Dal 2015 il gruppo Osservatorio monitora la situazione relativa all’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati sul territorio metropolitano, area di attenzione e di intervento dell’associazione Naga dal 1987. Cosa sta cambiando, o meglio cosa è ormai irrimediabilmente cambiato?



Gli ultimi decreti, a partire da quello del 2017 del ministro dell’Interno allora in carica, Marco Minniti, fino ad arrivare al decreto dell’ormai ex ministro Matteo Salvini di dicembre 2018, hanno cercato, in modo potremmo dire quasi chirurgico, di tagliare le spese dell’accoglienza, cambiando la normativa e, a cascata, riducendo drasticamente il budget a essa dedicato. Basti dire, per dare dei numeri, che per i centri di meno di 50 posti la quota pro capite è pari a 18 euro, mentre per quelli con più di 50 posti il tetto massimo è di 21,5 euro. È chiaro dunque che sono incentivati i grandi centri, penalizzando i più piccoli e, in particolare, gli appartamenti della cosiddetta accoglienza diffusa. Taglio drastico anche degli operatori, in particolare degli psicologi, infermieri e medici, abolizione della scuola di italiano e di qualsiasi altro servizio legato all’integrazione. L’accoglienza, quando viene offerta, si riduce a un letto con lenzuola di carta e un piatto di pasta, possibilmente nei piatti di carta. Precarizzazione totale che emerge dall’analisi del nuovo capitolato e irrigidimento del regolamento, come si può osservare dalle circolari emesse dalla prefettura di Milano nel mese di agosto. Un passo falso dell’ospite e la revoca dell’accoglienza scende come una mannaia, mandandolo fuori dal centro dall’oggi al domani. Gli esempi di ospiti che vengono a chiedere consiglio agli sportelli del Naga per chiedere di far luce sul perché di queste revoche sono ormai sempre più numerosi. La prefettura di Milano dal 1 gennaio 2018 al 31 agosto 2019 ha emesso 534 revoche dell’accoglienza di cui 465 per “abbandono” non giustificato del centro.



Decine e decine di persone vanno a infoltire la già nutrita schiera di non accolti che trovano rifugi di fortuna in stazioni, sottopassaggi, parchi e case abbandonate. Con permesso o senza permesso, la differenza è poca. L’abolizione, col decreto Salvini, della protezione umanitaria, la riduzione dei posti nei Centri di accoglienza straordinaria e nei Siproimi, ex Sprar, la mancanza di lavoro o i salari da fame, il costo proibitivo degli affitti e la mancanza di una politica abitativa favorevole non solo agli immigrati, ma più in generale, alle classi più deboli economicamente, hanno portato a una vera emergenza che di giorno in giorno sembra farsi più grave.
La politica della giunta milanese, considerata, senz’altro non a torto, una delle più favorevoli e solidali in Italia nei confronti del migrante, riflette purtroppo, gioco forza, la politica nazionale ed europea. L’accoglienza non è più un diritto, ma una concessione, la casa è un lusso, il lavoro pure.
Il gravissimo problema della residenza – ricordiamo che il decreto Salvini abolisce l’iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo – che nel Report viene illustrato da Enrico Gargiulo, Professore associato in sociologia generale presso l’Università di Bologna, è illuminante su questa situazione. Gargiulo approfondisce il tema della residenza e del domicilio, ponendo l’attenzione sulle persone che non vivono in contesti abitativi “normali” e “decorosi” o che non sono radicate in un Comune in maniera stabile. In linea con l’indagine del Report, Gargiulo afferma quanto le discriminazioni anagrafiche promuovano un programma di selezione, che va a punire la povertà e l’indigenza come se fossero colpe e a reprimere modi di vivere considerati inappropriati, oltre ad acuire le tensioni sociali.
Uno dei temi messi a fuoco nel Report è quello dei luoghi della non accoglienza, che dà il titolo a uno dei capitoli. È un tema a cui l’Osservatorio del Naga ha deciso di dare risalto per restituire dignità a persone che hanno perso qualsiasi diritto. L’attenzione si rivolge alle tipologie di insediamenti informali (strutture coperte e palazzine abbandonate, spazi all’aperto e giardini pubblici, case occupate) e fornisce un identikit delle persone fuori dal sistema di accoglienza restituendo una fotografia di queste marginalità. Le persone incontrate hanno status giuridici e provenienze variegate: da stranieri in attesa o nell’iter di formalizzazione della richiesta di protezione internazionale, a titolari di protezione, a stranieri con permesso di soggiorno in corso di validità, a cittadini italiani. Il minimo comune denominatore sembra essere l’instabilità abitativa, la precarietà occupazionale e salariale e la quasi totale assenza di tutele.
Attraverso visite sul campo i volontari dell’Osservatorio e del gruppo di Medicina di strada del Naga hanno avuto modo di incontrare e intervistare persone che vivono in situazioni di totale precarietà, costruendosi rifugi di fortuna e talvolta, nei casi di occupazioni di case abbandonate, con l’aiuto e il supporto di varie associazioni, in situazioni meglio organizzate e più stabili, con l’allacciamento di acqua e luce. Rimane sempre alto il rischio della visibilità che ha come conseguenza diretta l’allontanamento dal rifugio e spesso lo smantellamento del rifugio stesso. Così infatti nel corso del 2018 sono stati attuati diversi allontanamenti o, per meglio dire, diversi sgomberi, da parte delle forze dell’ordine. Capanne o casupole costruite in angoli nascosti di parchi o zone disabitate, capannoni, scali ferroviari in disuso, sono stati sgomberati, le persone sono state mandate via, spesso senza offrire loro soluzioni alternative. Dopo poco il reinsediamento nello stesso luogo o in un altro adiacente è stato gioco forza l’unica soluzione fattibile. Uno dei capitoli del dossier ha come titolo, infatti, La risposta politica della giunta di Milano: gli sgomberi, che riprende il Dossier Sgomberi pubblicato dal Naga nel marzo 2019 e approfondisce l’aspetto normativo e di disciplina degli sgomberi, la sua evoluzione negli ultimi due anni e le conseguenze sul territorio di Milano. L’indagine sottolinea l’emergenza abitativa nella città e descrive le esperienze di associazioni del terzo settore, comitati di quartiere e organizzazioni politiche che tentano di offrire una risposta. I provvedimenti principali in materia di sgomberi sono state due circolari del Ministero degli Interni, le norme introdotte con il decreto Minniti del 20 settembre 2017 e il successivo decreto Salvini del 4 ottobre 2018. La prima circolare, datata 1 settembre 2017 (Minniti), prevedeva la mappatura degli edifici occupati e delle procedure semplificate ed accelerate per l’individuazione delle fragilità presenti nelle occupazioni. Il decreto, invece, fornisce strumenti per la cooperazione tra enti locali in materia di sicurezza urbana. Materia nella quale rientra a tutti gli effetti il fenomeno delle occupazioni di case abbandonate da tempo, che vengono trattate come fenomeni criminosi e da combattere, oltre che per la sicurezza anche per il decoro urbano. Tutto ciò introduceva, inoltre, quello che è stato definito il DASPO urbano. La seconda circolare, del 1° settembre 2018 (Salvini) riprende quanto deciso dal precedente governo premurandosi di risolvere l’ostacolo della presenza di fragilità che vengono affidate ai servizi sociali dei comuni, ma che dovranno essere individuate solo a sgombero avvenuto. Infine, il decreto Salvini inasprisce le pene per le occupazioni abusive, ampliando anche la tipologia di luoghi pubblici per i quali è possibile applicare il DASPO.
Il Report quindi fornisce un quadro il più possibile esaustivo di quanto avvenuto in questi ultimi due anni e di quali provvedimenti sono stati presi per affrontare l’insorgere e il moltiplicarsi del fenomeno dei senza fissa dimora.
Quale è stata la comunicazione di quanto stava avvenendo da parte dei media? È questo il contenuto dell’ultimo capitolo, nel quale una rassegna stampa delle principali testate nazionali e dei principali siti web mostra, attraverso un’analisi suddivisa per temi, come è stato affrontato il problema dell’accoglienza e, più in generale, il fenomeno migratorio nel nostro paese.
In chiusura del Rapporto, sono raccolte le proposte dell’Osservatorio del Naga rivolte a istituzioni e società civile, fra le quali vorremmo ricordare solo le principali: garantire l’accoglienza sin dalla prima presentazione della domanda di protezione internazionale, uniformando il sistema sul modello dello Sprar; tollerare le occupazioni di insediamenti informali e non sgomberare le persone fino a quando non siano messe a disposizione concrete soluzioni alternative. Perché la casa è un diritto per tutti.
Associazione NAGA
Organizzazione di volontariato
per l’Assistenza Socio-Sanitaria
e per i Diritti di Cittadini Stranieri,
Rom e Sinti, Milano
https://naga.it/




The dark age of Italian general practice research
An Italian matter

More than half a century has passed since the birth of general practice (also known as family medicine or primary health care) research in the world. Over the years, its key role has been profoundly understood, not only for the growth of general practice itself, but also for the global improvement of medical care1. Alongside this, the central and active role of General Practitioners (GPs) in this setting has been largely recognized, as summed up with the slogan “research in family medicine by family physicians for the practice of family medicine”2.
This has led to its exponential global growth with the current achievement of what Pimlott has defined “golden age of family medicine research”3.
In contrast to this, we must unfortunately admit our disappointment related to the lack of this golden age in Italy. The current Italian situation would probably correspond more to a dark age of general practice research. But why is Italian general practice research in crisis? The reasons for this Italian matter are nevertheless numerous and very complex.
First of all it should be noted that surprisingly in Italy general practice is not considered from the legislative point of view a real specialty unlike other branches (such as internal medicine or cardiology).
This has therefore caused a debasement of its importance, with the development of the common idea that general practice is a medical branch of second class4. In the meantime, a constant marginalization from the university academic system over the years has been pursued5.
In fact, in the curriculum of most Italian medical schools there is no a general practice exam or an internship in primary care area4-5. This leads to a paradox, that is that most medical students come into contact with general practice only after graduation4-5. The post-graduate training of GPs is not managed by Universities but by Italian administrative regions, and consequently in order to become GPs it is necessary to follow a regional course lasting 3 years6. However in Italy there are 20 administrative regions and therefore 20 regional courses completely different7. This heterogeneity is also complicated by the total absence of a real national core curriculum in primary care, and the tutors of these regional courses do not look at clinical research as their teaching priority8. Moreover, in Italy there is no possibility to pursue an university PhD in general practice and university primary care departments are one in a million4-5.
Another limitation is represented by the lack of regional/national networks with an accessible database in which Italian GPs could more easily perform data collection in order to perform clinical studies, potentially very relevant due to large amounts of data theoretically available4. Most Gps still work alone in their own medical office9 and therefore not only simple data sharing is complicated, due to lack of datasets, but also the exchange of ideas with other GPs or specialist colleagues.
Furthermore, there are only few Italian medical journals focused on primary care; almost all of them are in Italian language and not indexed on international databases. To worsen the general situation, it should be noted that the Italian health system is still experiencing a long period of economic crisis10. The economic resources are drastically limited in the primary care setting and therefore the financing of general practice research is absolutely not a political priority. Finally, the high workload, due to the stifling bureaucracy and the difficult challenge of coping with the chronic diseases of one of the oldest populations in the world, further discourages GPs from dedicating their limited time to research.
From all this information it is therefore easy to understand how attempting to do research in this environment is a real obstacle course in which, even if you manage to reach the finish-line extraordinarily, you do not get any academic and institutional recognition. Any academic position of associate or full professor is not available to Italian GPs4 and scientific publications do not give additional points in the regional rankings to obtain a permanent contract as GP. The promising young doctors who aspire to do research therefore usually decide not to take the route of becoming GPs. In a surrounding atmosphere that lacks a true culture of research focused on primary care, the most part of performed studies are therefore of modest value, characterized by low sample size and published in minor journals that are not indexed in the main international databases.
Grace Murray Hopper, American scientist and pioneer of computer science, used to say that “the most dangerous phrase in the language is: we have always done it this way". The clinical conditions of the patient Italian general practice research are very severe. If a comprehensive and accurate evaluation of its limitations along with its un-explored potentiality is not pursued, we will have unfortunately to certify his death soon.

Marco Badinella Martinia, Fabrizio D’Ascenzob,
Augusto Zaninellic, Livio Garattinid,
Pier Mannuccio Mannucci
e
a. District of Primary Care,
Local Health Authority Cuneo 1 (ASL CN1), Cuneo, Italy
marco.badinella.martini@gmail.com (M. Badinella Martini).
b. Department of Medical Sciences, “Città Della Salute
e Della Scienza” Hospital, University of Turin, Turin, Italy
c. District of Primary Care,
Local Health Authority Bergamo (ATS Bergamo), Bergamo, Italy
d. “Angelo e Angela Valenti” Centre for Health Economics (CESAV),
“Mario Negri” Institute for Pharmacological Research, Milan, Italy
e. Scientific Direction, IRCCS
“Ca’ Granda Maggiore Policlinico” Hospital Foundation, Milan, Italy


Articolo pubblicato su: European Journal of Internal Medicine. https://doi.org/10.1016/j.ejim.2019.12.002
Received 2 December 2019; Accepted 7 December 2019.


REFERENCES
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2. Bowman MA, Neale AV, Seehusen DA. Research in family medicine by family physicians for the practice of family medicine. J Am Board Fam Med 2016; 29: 427-9.
3. Pimlott N. Golden age of family medicine research. Can Fam Physician 2015; 61: 489-904.
4. Cegolon L, Heymann WC, Lange JH, Xodo C. Improving Italian general practice training: the role of academia. BJGP Open 2017; 1. bjgpopen17×100989.
5. Cegolon L, Heymann W. International primary care snapshot: academic primary care in Italy. Br J Gen Pract 2016; 66: 34.
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7. Garattini L, Padula A. English and Italian national health services: time for more patient-centered primary care? Eur J Intern Med 2018; 57: 19-21.
8. Colombo A, Parisi G. Seeking identity in primary care. a survey on GPs trainees in Lombardy. Eur J Intern Med 2019; 64: 14-6.
9. Garattini L, Curto A, Freemantle N. Access to primary care in Italy: time for a shakeup? Eur J Health Econ 2016; 17: 113-6.
10. De Belvis AG, Ferrè F, Specchia ML, Valerio L, Fattore G, Ricciardi W. The financial crisis in Italy: implications for the healthcare sector. Health Policy 2012; 106:10-6.