Le condizioni per l’inclusione

Eva Benelli

Agenzia di editoria
scientifica Zadig

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Il 22 maggio 2021 ha consegnato alla comunità dei non udenti italiani un traguardo inseguito a lungo: il riconoscimento della Lingua Italiana dei Segni (LIS) e della Lingua Italiana dei Segni Tattile (LIST) come lingua ufficiale italiana per i sordi. Il che si porta dietro la promozione e la tutela di una forma di comunicazione che è stata a lungo una cifra identitaria sotterranea: segnare non è più solo un codice condiviso, diventa una lingua a tutti gli effetti e la legge legittima la comunità non udente a usarla all’interno della scuola, del sistema sanitario, dei servizi. Ne sancisce il diritto di piena cittadinanza. Nei fatti significa che ora un non udente potrà richiedere un interprete nei suoi rapporti con la pubblica amministrazione, potrà aspettarsi di seguire una lezione universitaria senza doversi pagare da sé qualcuno che lo assista, che potrà farsi curare pretendendo che la proposta terapeutica gli sia illustrata in maniera accessibile (oddio, lo vorrebbero spesso anche gli udenti, ma questa è un’altra storia).

La speranza è anche che una diffusione crescente della LIS faccia uscire i non udenti dall’invisibilità, che spinga all’inclusione e non all’esclusione, sfatando proprio il timore che ha nutrito a lungo la diffidenza verso questa lingua e cioè che il segno uccida la parola, rinchiudendo i non udenti in un ghetto volontario.

Era stato il famigerato Congresso internazionale degli educatori dei sordi, svolto a Milano nel 1880 (che ebbe il coraggio di lasciare a casa tutti gli insegnanti sordi), a interrompere bruscamente l’esperienza avviata nella prima metà dell’800 sulle orme dell’abate de l’Épée con le scuole dedicate ai non udenti e che stava facendo “emergere una popolazione di sordi ben istruita e colta”1.

Il Congresso sanciva la vittoria dell’oralismo sulla lingua dei segni, decretando la chiusura delle scuole per sordi, il licenziamento degli insegnanti non udenti e soprattutto radicando l’idea che i bambini sordi non dovessero perdere tempo con i gesti, ma dedicarsi solo a imparare a parlare. L’accesso agli studi divenne più difficoltoso, le misure estreme: mani legate per impedire ai bambini di segnare e punizioni corporali se l’uso della lingua orale era considerato insufficiente. La lingua dei segni si diede alla clandestinità, diventando un codice identitario, condiviso solo negli ambiti privati di non udenti. Si era costruita l’esclusione sociale ed economica.

Ma forse la cosa peggiore fu l’approccio, sopravvissuto fin (quasi) a oggi nei medici come nei genitori udenti di bambini sordi, che faceva prevalere solo la disabilità e non il modo, spontaneo, di affrontarla e cioè costruire una lingua che si muove nello spazio, visiva e non verbale, perché l’oralità è inutile per chi il suono non lo può sentire.

Dopo quasi cento anni di silenzio, negli anni ‘70 del secolo scorso nel nostro Paese è finalmente rinato un interesse storico, linguistico e antropologico verso la lingua dei segni, perché “la lingua non si può studiare se non si studia anche la comunità”, ricorda Virginia Volterra, tra le massime studiose italiane della lingua dei segni. E l’interesse degli studiosi aiuta a far riemergere quello della stessa comunità non udente. Anzi, in quegli anni si afferma anche il movimento Orgoglio sordo, che combatterà le prime battaglie per l’affermarsi della lingua e della cultura dei non udenti.

I progressi sono lenti, e anche se nel 2009 avviene la ratifica della Convenzione Onu sui diritti delle persone disabili, che sancisce il principio di accessibilità ai servizi, ma anche il riconoscimento e la tutela della specifica identità culturale e linguistica della comunità dei sordi, il Paese rimane inadempiente e l’Italia si è dovuta trascinare fino a poche settimane fa prima di decidersi, ultima tra i Paesi europei, a dare dignità alla versione nazionale della lingua dei segni.

Certo, le persone sorde si differenziano per età, per storia clinica, per livello di sordità, per questo se da una parte l’adesione all’uso della LIS crea identità, dall’altra ciò non vale per tutti. Ecco perché deve esserci libertà, perché l’obiettivo deve essere quello di costruire le condizioni per l’inclusione e non l’obbligo di appartenenza a una categoria. La LIS deve essere una scelta.

“La lingua dei segni non annulla il parlato, da quando ho imparato la LIS segno più di prima, parlo più di prima, imparo più di prima, capisco più di prima, ma soprattutto scelgo”, commenta una dei protagonisti del documentario “Segna con me”2.

La LIS ormai interessa anche le persone udenti, sia come strumento di comunicazione verso parenti e amici sordi, sia per le sue potenzialità comunicative che utilizzano le mani, il corpo e le espressioni: per esempio è stupefacente imparare in quanti modi puoi usare le dieci dita per dire cose diverse, ovviamente nello spazio. Poesia, teatro e narrazione stanno diventando occasioni privilegiate per comprendere che cosa si intende per cultura sorda, un salutare shock culturale.

E, piano piano, si stanno diffondendo anche le scuole bilingui che educano bambini udenti e non udenti all’italiano parlato e alla LIS. I processi di apprendimento negli studenti sordi non sono identici a quelli dei coetanei che ci sentono, cambiano i processi di attenzione. Ma soprattutto essere sordi significa solitudine, spesso il piccolo non udente sarà da solo in classe e forse in tutta la scuola. Ecco perché scuole integrate, bilingui, dove i bambini non udenti sono una piccola massa critica in ogni classe, vanno a vantaggio di tutti, alimentando uno scambio che arricchisce.

Come racconta Oliver Sacks, che ha seguito a lungo la comunità non udente di Martha's Vineyard, la cosiddetta “isola dei sordi” al largo delle coste del Massachusetts. Quasi tutta la popolazione, sordi e udenti, conosceva e usava la lingua dei segni. Così, osservando un giorno un gruppo di anziani seduti al sole a chiacchierare, si accorge che a un certo punto quello che sta raccontando scivola senza interruzione dal parlato alla lingua dei segni e piano piano tutti gli rispondono segnando invece di parlare. Evidentemente quel racconto funzionava meglio così.


BIBLIOGRAFIA

1. Sacks O. Vedere voci. Milano: Adelphi, 1989.

2. Bencivelli S, Tarfano C. Segna con me. https://www.youtube.com/watch?v=5HF1we5TJjk