Elogio del silenzio


Adoro il silenzio, la riflessione, l’introspezione. Detesto il cicaleccio, il parlare per parlare, il bisogno di dire qualcosa ad ogni costo. Il regista Roberto Andò ha scritto, riferendosi a Leonardo Sciascia, i cui silenzi erano leggendari di: “Una dimensione essenziale del silenzio, una dimensione che per Leonardo non era da accostare all’acquiescenza o all’omertà, ma alla resistenza vigile e consapevole. Un luogo, e un tempo, quello del silenzio, qualitativamente e moralmente significativo, dove nel misurare l’impotenza della parola e del pensiero, se ne propaga la vibrazione più autentica“.

Ancora sui silenzi di Sciascia, Gianfranco Dioguardi ha scritto di un’arte del tacere “come stimolo per migliorare quella del meditare del cui uso si aveva una grande necessità nel discorrere con Sciascia: la complessità del suo pensiero si manifestava attraverso un’articolazione dei significati che andava sempre oltre il semplice senso letterale ed immediato […] Ricordo come i suoi silenzi fossero sovente accarezzati dal fumo delle sigarette che con costanza – anch’essa siciliana – consumava metodicamente, con grazia, senza l’atteggiamento ansioso e sgarbato che di solito l’incallito fumatore assume nei confronti del proprio vizio“.

Una volta Jorge Louis Borges, che era cieco, disse che aveva riconosciuto Italo Calvino, un altro scrittore mutacico, dal suo silenzio. Nella primavera del 1984 Calvino è a Siviglia con la moglie Chichita, argentina di nascita. In un albergo della città Borges incontra alcuni amici. Arrivano anche i Calvino. Mentre Chichita conversa con il connazionale, Italo si tiene come al solito in disparte, tanto che lei ritiene opportuno avvertire: “Borges, c’è anche Italo ...“. Appoggiato al bastone Borges solleva in alto il mento e dice quietamente: “L’ho riconosciuto dal silenzio“.




Detesto quelli che parlano a vanvera, quelli che devono dire la loro ad ogni costo, anche su questioni delle quali non hanno una minima cognizione di causa, quelli che sparano fesserie a raffica, compiacendosene.

Adoro la quiete delle prime ore del mattino, quelle delle domeniche mattina, a passeggiare sul lungomare della mia città, o seduto su una panchina, a guardare il mare e la linea dell’orizzonte nelle giornate serene dopo che il maestrale ha spazzato via tutte le nubi e tra l’azzurro del cielo e quello del mare vi è solo una differenza di tonalità, appena percettibile. “Il silenzio del mare“ è il primo film di Jean Pierre Melville, uscito nel 1947 e tratto dall’omonimo romanzo di Vercors, nome dietro il quale si nascondeva uno scrittore esordiente, Jean Bruller, francese. Il romanzo fu scritto nel 1942 durante l’occupazione tedesca in Francia con il preciso scopo di aiutare i cittadini francesi a resistere adottando l’arma inconsueta del silenzio. Il silenzio del mare compatta la sua superficie, in un silenzio che nasconde e combatte sotterranee, contrastanti correnti marine e brulicante di vita. Come del resto il silenzio delle parole va a coprire contraddittorie emozioni e umani sentimenti.

Una volta, un viaggio in treno era l’occasione per leggere un libro dall’inizio alla fine, o solo per osservare il paesaggio (penso alla battigia della riviera abruzzese e marchigiana nei miei viaggi lungo la linea ferroviaria adriatica). Ora non è più possibile, a causa di questi maledetti smartphone perennemente squillanti e operanti per informare gli altri viaggiatori con dovizia di particolari di tutte le questioni che riguardano la vita privata della gente. Ho quasi nostalgia delle vecchie cabine telefoniche e dei telefoni a gettone.

Ivo Salvini, il protagonista del film di Federico Fellini “La voce della luna“, dice: “Eppure credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire“. Sì, è vero, il silenzio aiuta a capire. Il mite Ivo, la cui mente è sempre in bilico tra fantasie e realtà, crede di sentire delle voci, provenienti dai pozzi della campagna illuminata dalla luna, che lo esortano ad andare lontano per inseguire il suo ideale di donna che assomiglia alla luna tanto amata. Il film, ispirato al “Poema dei lunatici“ di Ermanno Cavazzoni e ambientato nella campagna padana percorsa soprattutto di notte, bella nei suoi silenzi, nei suoi misteri, nelle sue voci direttamente nutrite dalla luna.

Ovviamente, il riferimento a Giacomo Leopardi è superfluo. Durante tutto l’arco della sua vita, il sommo poeta ha coltivato nei suoi scritti con continuità e tenerezza l’immagine lunare, attribuendole funzioni e significati in conformità al proprio mondo interiore.

Domenico Ribatti

Dipartimento di Biomedicina Traslazionale e Neuroscienze “DiBraiN“ Università degli Studi di Bari

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