La casa della felicità, della libertà…
della comunità

Maurizio Bonati

maurizio.bonati@ricercaepratica.it


«Era una casa molto carina
senza soffitto, senza cucina;
non si poteva entrarci dentro
perché non c'era il pavimento.
Non si poteva andare a letto
in quella casa non c’era il tetto;
non si poteva far la pipì
perché non c’era vasino lì.
Ma era bella, bella davvero
in Via dei Matti numero zero».

 

Il testo della canzone-filastrocca di Vinícius de Moraes, ripresa da Sergio Endrigo nel 1969, conosciuta un tempo dai bambini di tutte le età, offre, rappresenta con la sua estrema semplicità, un pensiero sull’abitare, sulla creazione della casa dei sogni, secondo i propri gusti e desideri. Un invito ai bambini, attraverso la propria visione del mondo, a sviluppare idee e pensieri in libertà per la costruzione di una casa sì visionaria, ma un pretesto, un gioco, che, se partecipato e guidato da genitori ed educatori attenti, diventa utile per esprimere bisogni e desideri e creare spazi, non solo architettonici, che possano, almeno in parte, soddisfarli. La casa intesa come espressione della propria personalità e dell’espressione relazionale di chi la abita, la vive, la arreda. Espressione anche di felicità e libertà. L’opposto quindi delle “case dei matti” con cui venivano definiti gli ospedali psichiatrici. Si pensi solo alla Real Casa dei Matti di Palermo, uno dei primi manicomi europei fondato nel 1824. È la “stravaganza” dei suoi abitanti a definire queste seconde “case dei matti”, mentre per le prime, quelle di Vinícius de Moraes, i “matti” sono gli architetti che le hanno disegnate, gli ingegneri che le hanno realizzate. Una delle più famose “case dei matti” è a Marsiglia in boulevard Michelet, nell’VIII arrondissement, è l’Unité d’Habitation de Marseille. I matti erano il celebre architetto svizzero Le Corbusier e i suoi collaboratori che la costruirono fra il 1947 e il 1952. I marsigliesi la chiamano ancora così, la maison des fadàs, come la definirono molti critici, a testimonianza dell’originalità che ancora mantiene. «Ho riunito qui le condizioni della felicità» disse all’inaugurazione dell’edificio Le Corbusier, e forse non casualmente fa rima con libertà.

Un piccolo quartiere con negozi, sale comuni e una scuola al proprio interno, oltre a un sistema di interfono grazie al quale tutti i condomini potevano parlare gratis fra di loro. Il complesso è costituito da 17 piani e può ospitare fino a 1.600 persone, in 337 appartamenti di 23 tipologie differenti: dal monolocale all’appartamento per dieci persone. Ma la costruzione è espressione di un nuovo modo di abitare, di un sistema di relazioni che, partendo dalla singola unità abitativa intesa come cellula di un insieme, si estende all’edificio, al quartiere e all’intero ambiente costruito. Oltre ai singoli appartamenti, innovativi anche per l’arredamento, una ricca dotazione di servizi extra-residenziali essenziali come asilo, ambulatorio medico, palestra, supermercato, ufficio postale, macelleria, parrucchiere e aree ricreative a diretto beneficio di tutti gli abitanti per attività comunitarie quali l’orto condiviso, i corsi di pittura, yoga, inglese. Anche pochi ascensori per favorire gli incontri. L’edificio rappresenta quindi una sorta di contenitore che racchiude in esso uno spazio urbano, che trascende la funzione meramente abitativa di un semplice condominio, ma è la casa di una comunità, la casa del bene comune1.

Il decreto interministeriale 23 maggio 2022 (un atto di potenziali innovazioni e opportunità) prevede che ogni 40-50 mila abitanti sia costituita una Casa della Comunità (CdC), un “luogo fisico di facile individuazione al quale i cittadini possono accedere per bisogni di assistenza sanitaria e socio-sanitaria”. Le CdC (l’evoluzione del concetto di Casa della Salute realizzato solo in parte e in alcune Regioni nel variegato servizio sanitario territoriale regionale nel definire e realizzare “unità complesse di cure primarie”) rappresentano strutture di riferimento per il cittadino, un “modello organizzativo dell’assistenza di prossimità” la cui realizzazione è finanziata con 2 miliardi di euro dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Un luogo sede della governance, dove con strumenti aggiornati e appropriati (innovazioni tecniche e organizzative) vengono pianificati, realizzati, monitorati e aggiornati i percorsi di cura di una Comunità. Una realizzazione all’avanguardia nel concepire il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) e lo stato sociale italiano a garanzia dei bisogni dei cittadini?

A tutt’oggi, con l’eccezione di rare esperienze locali2, sembra più un progetto urbanistico e architettonico differenziato nelle varie realtà locali in ritardo nella realizzazione3. La complessità del sistema sanitario regionale, i ritardi procedurali e le difficoltà nel portare a termine progetti infrastrutturali complessi sono gli ostacoli principali al rafforzamento dell’assistenza territoriale e alla riduzione della pressione sugli ospedali, come auspicato con la Missione 6 del PNRR. Alla fine del 2024, infatti, il livello di spesa sostenuta risulta tra i più bassi tra le Missioni del PNRR, con un avanzamento inferiore al 20% del totale previsto3. Tutto questo però solo per la realizzazione delle infrastrutture, circa i “servizi” forniti e garantiti, gli operatori preparati e coinvolti nella realizzazione del progetto, l’informazione e la partecipazione dei beneficiari sono fasi di un percorso non delineato nei dettagli, il cui unico milestone è rappresentato dalla realizzazione di 1038-1350 strutture4. Il modello organizzativo adottato, senza alcuna sperimentazione circa la fattibilità e l’appropriatezza del progetto, è lacunoso proprio nei punti strategici per la sua realizzazione a partire dalla “struttura fisica dell’équipe multiprofessionale”: quali e quanti medici e pediatri di famiglia, medici specialisti, infermieri di famiglia e comunità, assistenti sociali e altri (quali?) professionisti della salute? Difficile rispondere a questi interrogativi (e impossibile pianificare interventi) senza conoscere e delineare i “bisogni di assistenza sanitaria e socio-sanitaria” della Comunità di riferimento. I bisogni caratterizzano ogni Comunità, alcuni sono comuni e prevalenti per la maggioranza dei cittadini italiani, altri sono prevalenti in specifici territori (e quindi Comunità) e necessitano appropriate attenzioni e cure. Quello che fa la medicina personalizzata (personalized medicine), utilizzando il profilo genetico di un individuo per orientare le decisioni da prendere in merito alla prevenzione, alla diagnosi e al trattamento delle malattie, lo dovrebbe fare la medicina del territorio (Primary health care) utilizzando il profilo sociale e sanitario della Comunità target: partire dai bisogni per orientare interventi di prevenzione, diagnosi e cura di una popolazione. Impossibile e, comunque, ingiusto ed errato pensare che l’attività della CdC del quartiere Tamburi a Taranto sia simile a quella di Scampia a Napoli, o a quella di Tor di Quinto a Roma.

Succede così che si fraintenda il significato di “prossimità” (“modello organizzativo dell’assistenza di prossimità”) con la distanza tra la residenza dell’assistito e l’ambulatorio del medico di medicina generale e non l’azione attiva dell’“andare verso”5 che dovrebbe aggiungersi alla sola azione passiva dell’attendere che il paziente venga in ambulatorio. Prossimità a chi non arriva perché senza fissa dimora, perché fragile non assistito, perché migrante irregolare… implica che qualcuno della e nella Comunità lo individui, lo segnali, lo accompagni (anche) alla CdC. La CdC deve essere quindi intesa e programmata per l’accoglienza e l’ospitalità (caratteristiche ancora da riconoscere), ma anche per l’uscita sul territorio, per andare a domicilio e nelle realtà sociali locali dove si realizza lo “star bene” o lo “star male” della Comunità. La prossimità (l’uscire dalla CdC) risponde anche ad un’altra azione che necessita nella pratica di essere incrementata e migliorata in termini di efficienza: la prevenzione. La prevenzione intesa come una delle espressioni delle cure di prossimità. Nelle linee di indirizzo ministeriale della realizzazione delle CdC tutto questo non è trattato, ma mettere in pratica i principi della prossimità, della partecipazione e dell’empowerment nel senso della prevenzione, promozione della salute e della presa in carico proattiva dei bisogni, in particolare quelli cronicizzati, dovrebbe essere compito di una CdC.

Nel 1995 la Unité d’Habitation de Marseille è stata nominata Monument Historique, e nel 2016 Patrimonio UNESCO. Un monumento storico alla felicità: emozione di benessere. Un patrimonio della collettività: un bene a disposizione per implementare la felicità di tutti. Nel 2025 la CdC… in costruzione, per un modello urbanistico comune nazionale, per occupanti identici. Difficile, con queste premesse, che diventi un monumento o un patrimonio nazionale del welfare italiano o anche del solo SSN pubblico e universalistico.

 


Il territorio non è
uno spazio neutrale.
È plasmato dal potere, dalla storia e
dalla presenza
6.

DWIGHT CONQUERGOOD 



BIBLIOGRAFIA

1. Bonati M. La Casa del bene comune. Ricerca e Pratica 2023; 39: 51-6.

2. Pilutti S, Di Monaco R, Costa G. Costruire reti, generare impatto. L’esperienza della rete Arcturus: innovazione, cooperazione e welfare territoriale efficace. Torino: Ed. Prospettive ricerca socio-economica, 2025. https://iris.unito.it/handle/2318/2065654

3. Corte dei Conti. Relazione sullo stato di attuazione del Piano Nazionae di Ripresa e Resilienza (PNRR). Maggio 2025. https://www.corteconti.it/Home/Organizzazione/UfficiCentraliRegionali/UffSezRiuniteSedeControllo/RelstatoPNRR&ved=2ahUKEwjX06T69qmNAxXvzwIHHbr1JfkQFnoECBgQAQ&usg=AOvVaw1QhEMAvCq0zubujz9rT-d5

4. Agenzia Nazionale per i servizi Regionali (Agenas). Case della Comunità (CdC). https://www.agenas.gov.it/pnrr/missione-6-salute/case-della-comunit%C3%A0-cdc

5. Forum Disuguaglianze Diversità. Case della Comunità. Alla ricerca di una «nuova» nozione di pubblico, 2024. https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/wp-content/uploads/2024/12/Impaginato-Case-della-comunita-web_DEF.x61544.pdf

6. Conquergood D. Performance Studies: Interventions and Radical Research. TDR (1988-) 2002; 46: 145-56. http://www.jstor.org/stable/1146965