La “Cenerentola” della sanità


Se ne parla sempre meno, spesso solo in occasione di anniversari o di episodi tragici e violenti, eppure la salute mentale, come o forse più della sanità in generale, è in grande crisi. I Centri di salute mentale e i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura – tra i luoghi che offrono cure pubbliche ai cittadini che soffrono di un disagio psichico – sono la maggior parte delle volte carenti e le cose peggiorano ogni anno. Questa tendenza va contrastata inn un momento storico – come hanno ribadito in apertura della seconda Conferenza nazionale autogestita per la salute mentale (dicembre scorso) Giovanna Del Giudice, presidente della Conferenza permanente per la salute mentale nel mondo Franco Basaglia, e Gisella Trincas, presidente Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale – particolarmente delicato per l’insicurezza sociale, le guerre, l’emergenza climatica. A cui si aggiunge la crisi profonda del nostro SSN, con una grande variabilità regionale, poca attrattività per i professionisti sanitari, la concretizzazione di forme di neo-istituzionalizzazione. Ma come siamo arrivati a questo punto? “Ci siamo arrivati non perché, come ci dicono, siamo un Paese troppo vecchio; non perché le cure costano troppo; non perché dobbiamo rientrare dal debito pubblico. Siamo arrivati a questo punto perché siamo stati colpiti dalla pandemia del neoliberismo. Una pandemia ideologica che ha contagiato tutti i governi e sta sgretolando il nostro SSN. Abbiamo gli argomenti per dire che il mercato in sanità non funziona: non solo perché produrrebbe iniquità enormi, e le stiamo già vedendo, ma perché ci sono evidenze scientifiche ampie che dimostrano che il privato è meno efficiente e porta ad aumentare la spesa complessiva per le prestazioni sanitarie”, ha sottolineato Nerina Dirindin, presidente dell’Associazione salute diritto fondamentale, nell’intervento che ha chiuso la Conferenza.

La Conferenza è stata voluta proprio nel centenario della nascita di Franco Basaglia, la cui rivoluzione nell’assistenza alle persone con disturbo mentale ha portato alla legge 180 del 1978 che “permette di fare la migliore salute mentale nel mondo”, ha ricordato Del Giudice, e dobbiamo esserne fieri. Ma dobbiamo anche preservarla per impedire che si ripetano le logiche manicomiali nei servizi con l’abbandono cui troppe volte sono destinate le persone che vi si affidano, come ha raccontato Elio Pitazalis, giovane sofferente di disagio psichico; con il permanere di pratiche come la contenzione o l’elettroshock, che violano i diritti umani delle persone con sofferenza mentale; o ancora con una cura sempre più farmacologica e meno attenta al lato umano.

Dinamiche, queste, che si ripetono anche nelle carceri e nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) destinati ai migranti, e che di conseguenza ci impongono di guardare non solo a chi vive l’esperienza della sofferenza mentale ma a tutte quelle persone che si vedono private dei propri diritti. Non possiamo più costruire salute senza farci carico del dramma dei migranti, delle sofferenze della comunità LGBTQIA+, dei grandi anziani, della popolazione carceraria. E da adulti non possiamo non ascoltare il disagio sommerso dei giovani, che vivono spesso una generale insoddisfazione, la solitudine, la paura del futuro. C’è chi lo manifesta facendo finta di niente, chi cerca di diventare invisibile, chi rifiuta il cibo o la scuola, chi con forme di violenza. Una Conferenza che – anche grazie ai cinque gruppi di lavoro che hanno lavorato parallelamente – ha dato spazio a tutti questi aspetti e che, forse anche per questo, ha visto la partecipazione di tante ragazze e ragazzi giovani che hanno portato la loro testimonianza e il loro punto di vista.

Il focus sulla salute mentale non è stato perso. Si è sottolineato come, tra gli altri, ci sia un problema di risorse: si investe in salute mentale il 3% del fondo sanitario quando bisognerebbe arrivare almeno al 5%. Per avere un’idea, la Francia ne spende il 14%, la Germania il 13%. È importante capire, però, cosa fare con queste risorse. “Negli ultimi anni invece che investire si sono fatti tagli: rispetto al 2022 abbiamo il 25% in meno del personale e senza personale non si può fare assistenza sanitaria; nel 2015 i Dipartimenti di salute mentale erano 183, adesso sono 138, con la conseguenza che abbiamo allontanato le persone dai luoghi in cui possono essere accolte; abbiamo investito sulle guardie giurate e sui corsi di difesa personale per i professionisti sanitari, come se la risposta fosse la violenza”, ha ricordato Dirindin. “I professionisti sanitari non sono colpevoli perché si trovano in una situazione complicata, ma a volte guardano dall’altra parte. Delegano l’assistenza alle famiglie, e soprattutto alle donne, alle associazioni, al volontariato. Non dobbiamo permettere che questo accada”.

“La salute mentale è la Cenerentola della sanità, ma è anche un bellissimo fiore, simbolo della resistenza, dell’impegno, della rinascita, della libertà”, ha concluso Dirindin con un messaggio di speranza. “In questi due giorni abbiamo ascoltato tante esperienze positive sparse in giro per l’Italia. Ne vorremmo molte di più, ma sono tante: persone che hanno intrapreso percorsi di guarigione, professionisti sanitari che stanno resistendo di fronte alla povertà dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, professionisti che hanno già abolito la contenzione e altri che la stanno abolendo, progetti di scuole, di comunità educanti, di chi costruisce ponti tra il sociale e il sanitario, tra l’adolescenza e l’età adulta, tra chi cura e chi ha bisogno di cura, tra l’ospedale e il territorio”.

Le due giornate della Conferenza hanno aperto un dialogo che dovrà proseguire nei prossimi anni in cui, per dare un seguito concreto, si dovrà: inserire la salute mentale fra le priorità dell’agenda politica; definire precise misure per assicurare la partecipazione delle persone con disagio mentale, dei familiari, delle associazioni e del sindacato nei servizi e negli organi decisionali territoriali; garantire un consistente incremento del Fondo sanitario nazionale oggi tra i più bassi d’Europa; riorientare i Dipartimenti di salute mentale e i Servizi di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza verso una cultura e una pratica rispettosa delle norme internazionali sui diritti umani delle persone con disabilità e dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza; garantire ai Centri di salute mentale il ruolo di regia del sistema di cure, con servizi funzionanti sulle 24 ore, aperti almeno 12 ore al giorno e 7 giorni su 7, capaci di promuovere integrazione sociale, sanitaria, lavorativa, abitativa; definire uno specifico sistema di monitoraggio dell’attività svolta nelle Regioni; incentivare la riallocazione delle risorse dalla residenzialità alla domiciliarità; abolire qualsiasi trattamento inumano e degradante, a partire dalla contenzione meccanica, in tutti i luoghi della cura e di accoglienza; promuovere un preciso impegno delle Università per una formazione adeguata; garantire la tutela della salute mentale per le persone ristrette negli istituti penitenziari e nei Cpr.

Due giornate di confronto civile e competente, non scontato in questo periodo. Due giornate di rispetto e non di facili luoghi comuni. Due giornate in cui chiunque ha potuto prendere la parola. Due giornate in cui, in qualche modo, ci si è presi cura gli uni degli altri. Due giornate che dovrebbero, però, essere sempre più partecipate e diventare normalità e non occasioni rare e per pochi. Per diventare ancora di più dobbiamo continuare a mobilitarci, a trovarci, a confrontarci, a scambiare le nostre esperienze. Tutto con un unico obiettivo: ridare dignità e diritti a chi vive direttamente o indirettamente la sofferenza mentale. Un concetto che sembra ancora oggi rivoluzionario, ma che era alla base del pensiero di Franco Basaglia già cinquant’anni fa. Se c’è ancora bisogno di ribadirlo, forse è vero che la legge 180 non è ancora compiuta del tutto.

Rebecca De Fiore

r.defiore@pensiero.it