Gioco di squadra*

Maurizio Bonati

maurizio.bonati@ricercaepratica.it

Dovete guardare il compagno che avete accanto, guardarlo negli occhi; io scommetto che ci vedrete un uomo determinato a guadagnare terreno con voi, che ci vedrete un uomo che si sacrificherà volentieri per questa squadra, consapevole del fatto che quando sarà il momento voi farete lo stesso per lui. Questo è essere una squadra signori miei. Perciò o noi risorgiamo adesso come collettivo, o saremo annientati individualmente”.

Ogni maledetta domenica

Nella società dove tutto è spettacolo, l’esortazione del bravo Al Pacino nel film di Oliver Stone del 1999 non è più confinata al solo mondo dello sport (in quel caso il football americano), ma a tutte le sfere della vita. La sceneggiatura, dello stesso Stone e John Logan, è molto unilaterale e conservatrice (americana?) nella concezione di spirito di gruppo e di obiettivo comune. Un approccio buonista e quasi purificatore da parte dello sport a quanto produsse “il gioco di squadra” americano in Vietnam nel ventennio 1955-1975. Un ulteriore passo di espiazione dello stesso Stone dopo Platoon del 1986. Pur tuttavia una visione del gioco di squadra come obbedienza e sottomissione, non certo come partecipazione condivisa, dove gioco è sinonimo di divertimento e di soddisfazione e squadra sinonimo di collettività e di comunità. Dove l’obiettivo è il bene comune e non l’interesse di pochi. Un gioco di squadra, quello animato da valori nobili, che si è sempre più perso nel tempo e oggi è difficile e faticoso, quando non doloroso, immaginare. Il gioco è fatto di regole, che andrebbero anche aggiornate se necessario, ma anche di esperienza, talento, preparazione, tenacia, passione e disponibilità da parte del singolo giocatore affinché ci si diverta o si ottenga al meglio l’obiettivo perseguito, che non necessariamente è quanto raggiunto o ottenuto. Quello che predomina purtroppo è tutt’altro tipo di gioco e tutt’altre le squadre che con potere decisionale indirizzano la vita quotidiana. Se il gioco si indebolisce di valori quali la solidarietà, l’eticità, l’equità, la giustizia, i diritti umani vengono meno; il gioco è per pochi, mentre i molti osservano e subiscono, le squadre che giocano sono quelle dei pochi in associazione tra loro. Gli I(nfelici) M(olti) e i F(elici) P(ochi) di Elsa Morante1, come sta purtroppo cronicizzandosi.

Mai, forse, è diventato così esplicito come in questo periodo, tanto nel quadro nazionale che internazionale, come sia la squadra a scegliere e determinare il gioco, di quanto fosse il gioco a modellare la squadra. Il debordare del familismo e della lottizzazione nelle istituzioni pubbliche o della gestione apicale della politica da parte di imprenditori ne è testimonianza. La lungimiranza degli interventi, la strategia di programmi, le valutazioni d’esito e le conseguenti modifiche d’opera, la messa a regime dei risultati positivi di sperimentazioni, il monitoraggio dei bisogni e dei relativi interventi di miglioramento a livello delle singole comunità sembrano essere regole di un gioco mai realizzato, seppur necessario. Un gioco, quello attuale, giocato su terreni e in contesti diversi da quelli frequentati dalla maggioranza dei cittadini e per un periodo di tempo massimo (quello del mandato) ipotetico e quotidianamente minacciato. È necessario e urgente, anche a difesa della salute, ridefinire un gioco e una squadra affinché i diritti fondamentali, quelli umani, quelli costituzionali, vengano garantiti appieno. Perché siano i valori umani e non il valore economico o politico a dettare le regole del gioco. Che sia il “noi”, il “nostro” e non l’”io” il “mio” a guidare il gioco. Il manifesto “La società civile sostiene il Servizio Sanitario Nazionale. Non possiamo tacere” (le cui iniziali formano l’acronimo SCOSSA, che è anche un invito) indica 10 possibili contesti di gioco e alcune regole con l’obiettivo di privilegiare e tutelare il bene comune, come fu nel 1978 con la legge 8332. Ma serve una squadra. La squadra non può essere quella delle sole firme di adesione a un documento, alle piattaforme informatiche, all’espressione dell’Io anonimo. È necessario trovare forme e modalità di coinvolgimento e condivisione diretta, sul territorio, tra le comunità, là dove i bisogni necessitano di appropriate risposte. Alcuni esempi incoraggianti ci sono, andrebbero sostenuti e generalizzati.

Il riconoscimento, dopo anni di denunce, vertenze e battaglie, dell’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) e da altre sostanze (C604 e GenX) che ha segnato un territorio vicentino di 300.000 abitanti, estendendosi per oltre 100 chilometri quadrati e contaminando la seconda falda acquifera d’Europa, è il risultato della costruzione di una squadra e del gioco che ha saputo produrre anche contro molti avversari, nell’interesse della collettività (per il bene comune). Le PFAS infatti si trovano dappertutto: dalle pentole antiaderenti, agli indumenti e scarpe impermeabili, in alcuni imballaggi alimentari, nei pesticidi e nelle falde acquifere (quindi potenzialmente anche nell’acqua corrente). Sono “sostanze chimiche permanenti”, in quanto sono estremamente persistenti nel nostro ambiente e organismo. Possono causare danni al fegato, malattie della tiroide, obesità, problemi di fertilità e cancro.

Anche il progetto Arcturus è un esempio positivo: ha sperimentato, infatti, nella Città di Milano un modello di sistema-rete integrato coinvolgendo dieci enti del terzo settore per rispondere ai bisogni complessi di persone in condizione di marginalità. In coerenza con gli obiettivi del PNRR e del DM 77 (riforma del welfare territoriale), il modello mira a superare l’erogazione standardizzata, trasformando i servizi territoriali in infrastrutture sociali capaci di generare fiducia, promuovere salute e sostenere percorsi di autonomia3. I risultati indicano l’efficacia di questo modello nel generare salute, equità e dignità nei contesti di maggiore fragilità e, in quanto sistema-rete integrato, si presta ad essere applicato in modo universalistico nei servizi territoriali e nelle Case della Comunità.

Esempi positivi che: “si può fare”. Serve però anche una politica matura e preparata, una cultura di sanità pubblica diffusa e che sia condivisa con i cittadini. E dove queste condizioni non esistono vanno create4. È questo il gioco da fare, quello attorno al quale costruire la squadra. Il gioco animato dalla passione, dalle emozioni, dalla gioia5. Non dall’ebrezza o interesse del momento, ma dalla relazione con gli altri, nell’incontrare, andare verso, nell’accettare, comprendere, nell’essere importante per sé e per gli altri6.

Perché il vero gioco di squadra non è quello che si pratica o a cui si assiste “ogni maledetta domenica”, ma quello di tutti i giorni e a cui tutti partecipano, anche “divertendosi”.



* Queste riflessioni sul gioco di squadra nascono, come ogni editoriale, dall’incrociarsi di pensieri mattutini circa eventi del giorno prima e le scadenze del giorno che si apre. Il pretesto nasce dopo la vittoria della Virtus Bologna del campionato di basket 2024-2025. Meritata, sulla pur brillante, ma “corta” Brescia. Con il dispiacere di una Olimpia Milano caratterizzata da disavventure e autolesioni. I giocatori dedicano la vittoria al compagno di squadra Achille Polonara, ricoverato per una leucemia mieloide diagnosticata nel corso delle partite finali dei play-off, mentre stava giocando. Un giocatore che ha quindi contribuito al successo finale, lasciando anche il segno difensivo partendo dalla panchina. Nonostante l’isolamento, una delegazione dei compagni di squadra è andata a portargli la coppa in ospedale. Un gesto di supporto, solidarietà e vicinanza manifestatagli anche fuori dall’ospedale dall’intera squadra e non solo. L’ebbrezza, l’emotività di un momento? No, pensando che quando due anni fa gli venne diagnosticato un tumore al testicolo Achille Polonara ricevette l’affetto costruttivo ed efficace (anche) per rientrare in squadra ed esprimersi per qualità e capacità. Prerogative del basket rispetto ad altri sport di squadra? Forse, ma non solo. È forse il modo di svolgere un lavoro che beneficia anche di condivisioni che non sono solo tecniche e finalizzate alla sola produzione. Un gioco-lavoro quotidiano non della sola “maledetta domenica”. E da qui ho iniziato a scrivere l’editoriale.


BIBLIOGRAFIA

1. Morante E. Il mondo salvato dai ragazzini. Torino: Einaudi, 1968.

2. Scossa. La società civile sostiene il Servizio Sanitario Nazionale. https://scossa.net/

3. Piutti S, Di Monaco R, Costa G. Costruire reti, generare impatto. Ricerca&Pratica 2025; 41.

4. Maffei CM. Per una volta chiediamoci perché le case della comunità da qualche parte funzionano. Quotidinaosanità.it 26 giugno 2025. https://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=130319

5. Borgna E. Gioia. Torino: Einaudi, 2025.

6. Francesco. Ti auguro il sorriso. Per tornare alla gioia. Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2020.