Curare è ascoltare

Due progetti fotografici tra paesaggio, memoria e resistenza


Nel mio lavoro di curatrice e docente all’interno dell’Accademia di Belle Arti, ho spesso la fortuna – e la responsabilità – di accompagnare giovani autrici e autori lungo il delicato percorso della costruzione progettuale. Non si tratta mai di un semplice supporto tecnico o teorico, ma di un autentico processo di dialogo e cura, che si sviluppa nel tempo, spesso lungo molti mesi. Curare, in questo senso, significa affiancare, ascoltare, domandare, anche mettere in discussione. Nel corso dell’ultimo anno accademico ho avuto il privilegio di seguire due progetti di ricerca profondi e coraggiosi, nati da esigenze personali e da una tensione etica e politica verso i luoghi, le storie e le ferite del nostro tempo. In entrambi i casi, le giovani autrici hanno messo in gioco non solo la propria visione artistica, ma anche la propria esperienza biografica e la propria sensibilità civile.



IL PAESAGGIO COME ARCHIVIO INVISIBILE

Il primo progetto che ho avuto modo di curare indaga il paesaggio in una chiave complessa e stratificata, lontana da qualsiasi rappresentazione estetizzante. “Il paesaggio non è mai un’entità fissa”, scrive l’autrice, Maria Pia Vitale, nel suo statement: ed è proprio da questa consapevolezza che prende avvio un’indagine fotografica tesa a rivelare ciò che il paesaggio nasconde, o meglio, ciò che conserva sotto traccia. La protagonista dello studio è Rocchetta Sant’Antonio Scalo, una piccola frazione abbandonata della provincia di Foggia, oggi completamente priva di abitanti. Ma la marginalità del luogo non è solo geografica: essa è anche, e forse soprattutto, il risultato di una storia rimossa, di una ferita invisibile.

Per circa un decennio, nei pressi di Rocchetta Scalo furono stoccati convogli ferroviari contenenti scorie radioattive. Un evento poco noto, mai del tutto dichiarato, che ha generato contaminazione ambientale e, con essa, un lento e inesorabile abbandono. Il progetto fotografico costruito attorno a questa vicenda non si limita a documentare, ma cerca di restituire visivamente l’invisibilità stessa della contaminazione: le fotografie sono esposte in lightbox attraversati da filtri di acetato verde, che alterano la percezione delle immagini simulando quella radioattività latente che ha segnato la vita del luogo.


















LA MAFIA UCCIDE, MA LA MEMORIA RESISTE

Il secondo progetto che ho seguito nel corso dell’anno è di natura più dichiaratamente biografica e politica. Roberta Lonigro ha scelto di confrontarsi con un tema difficile e spesso trattato con retorica o superficialità: quello delle vittime innocenti di mafia. Il suo punto di partenza non è solo artistico, ma profondamente personale: nata e cresciuta in un quartiere periferico di Bari, ha sentito sulla propria pelle il peso del pregiudizio legato al territorio. E proprio da questo margine urbano e sociale ha scelto di partire per indagare non tanto “la mafia” in senso generale, quanto le storie di chi, in quel territorio, ha perso tutto senza colpa.

La ricerca è cominciata nel settembre 2024, e ha richiesto mesi di incontri, contatti, telefonate, silenzi. Grazie al supporto dell’associazione “Libera contro le mafie”, Roberta ha potuto incontrare tre famiglie che hanno perso un proprio caro a causa della violenza mafiosa: i Mizzi, i Fazio e la signora Ruffo. Ogni incontro è stato preparato con cura, ogni fotografia è frutto di un dialogo, di un ascolto profondo.

Ma il progetto non si è fermato a questi tre casi: Roberta ha cercato, con ostinazione, di ricostruire le vicende di altre vittime innocenti, anche laddove non era possibile entrare in contatto con i familiari.




















Entrambi i progetti, pur nella loro differenza, mettono al centro un’idea di fotografia come strumento critico, relazionale, capace di interrogare la realtà e costruire memoria.

Michela Fabbrocino

michela.fabbrocino@gmail.com