Placebo e omeopatia

Silvio Garattini, Vittorio Bertele’
IRFMN, Milano
vittorio.bertele@marionegri.it


Placebo e omeopatia
Da più parti di tanto in tanto viene evocato un presunto effetto placebo dell’omeopatia, quasi a giustificarne l’uso altrimenti indifendibile. Placebo e prodotti omeopatici presentano aspetti del tutto differenti. Il rimarcare ciò che li distingue può contribuire a un chiarimento attorno a questo problema e disilludere aspettative infondate.

Il placebo
Per placebo (letteralmente dal latino “piacerò”) si intende una qualsiasi sostanza innocua o un qualsiasi intervento non farmacologico privi di efficacia terapeutica. Proprio per questa sua prerogativa il placebo è deliberatamente somministrato alla persona che acconsente ad assumerlo come alternativa a un trattamento attivo di cui si voglia sperimentare l’efficacia o la sicurezza. L’uso del placebo quindi è legittimo solo a scopo sperimentale e solo in presenza del consenso informato del paziente; e, secondo la Dichiarazione di Helsinki, solo se non vi siano trattamenti di provata efficacia per la situazione clinica soggetta a sperimentazione.
La collaborazione cosciente del paziente è perciò richiesta nelle situazioni in cui la medicina, dichiarando la propria difficoltà di giudizio, deve procedere attraverso la sperimentazione. Somministrare un nuovo farmaco potenzialmente efficace al di fuori di un contesto sperimentale significherebbe esporre il paziente al rischio di una sua tossicità sconosciuta; negarglielo a priori significherebbe privarlo della possibilità di goderne il possibile effetto benefico. L’unica soluzione eticamente e scientificamente valida è la sperimentazione: il caso (la randomizzazione) distribuirà trattamento potenzialmente efficace o placebo a una popolazione di pazienti e il confronto dell’esito clinico nei due gruppi di trattamento consentirà di concludere se il farmaco sperimentale è superiore al placebo. La somministrazione del placebo, in una formulazione del tutto uguale a quella del farmaco sperimentale, consente di mantenere la cecità dello sperimentatore e/o del paziente rispetto al trattamento; a sua volta la cecità evita che condizionamenti volontari o involontari possano influenzare l’esito della sperimentazione, a favore o a sfavore del trattamento sperimentale.

Il prodotto omeopatico
L’omeopatia (dal greco “legge dei simili”) duecento anni fa riesumò il concetto adottato dagli antichi romani secondo cui similia similibus curentur, cioè letteralmente “i simili si curano con i simili”. L’omeopatia in effetti presume di trattare i pazienti che hanno determinati sintomi con dosi infinitesime di una sostanza che a dosi maggiori provocherebbe gli stessi sintomi in soggetti sani.
I prodotti omeopatici, infatti, sono il risultato di progressive diluizioni di una sostanza di origine minerale, vegetale, animale o di sintesi. Secondo la farmacopea omeopatica francese, ad esempio, queste sostanze devono essere sottoposte a 30 diluzioni successive di 1 a 99. In tal modo, secondo la costante di Avogadro (6.022.1023 1/mol), i prodotti omeopatici finiscono per non contenere altro che il solvente, senza neppure una molecola della sostanza presente nella soluzione originale. Tant’è vero che si potrebbero cambiare tutte le etichette dei prodotti omeopatici esposti sugli scaffali di una farmacia e nessuno se ne accorgerebbe, dato che non è possibile misurare prodotti attivi che non sono presenti, con buona pace della “memoria dell’acqua”.
A differenza del placebo, l’uso del prodotto omeopatico avviene al di fuori di un contesto sperimentale ed è promosso come potenzialmente curativo agli occhi del paziente. Mentre nella sperimentazione l’inutilità terapeutica del placebo è dichiarata e il suo uso è giustificato al paziente come strumento per evitare di attribuire erroneamente al farmaco in studio effetti che non gli sono propri, il prodotto omeopatico è deliberatamente somministrato alla persona facendole credere che esso sia un trattamento utile o addirittura necessario.
Contrariamente all’uso del placebo, quindi, l’impiego del prodotto omeopatico è contrario alla deontologia medica perché si regge sulla mistificazione di un effetto non dimostrato e sul tradimento intellettuale del paziente.

Può il prodotto omeopatico essere utilizzato per un suo eventuale effetto placebo?
Si sostiene che i prodotti omeopatici, somministrati in un contesto capace d’indurre un’aspettativa terapeutica (il rapporto omeopata-paziente), producano effetti che il paziente/cliente sperimenta direttamente. Se il prodotto omeopatico non ha un effetto terapeutico, può l’asserito “effetto che il paziente/cliente sperimenta direttamente” riflettere almeno un effetto placebo tale da giustificarne l’uso?
L’effetto placebo è ben documentato e se ne conosce in parte il meccanismo: è molto modesto, di breve durata, si annulla con l’aumentare della numerosità dei pazienti nel trial e quando si considerano misure di outcome oggettive anziché parametri soggettivi. Inoltre è stato particolarmente studiato nel dolore, principalmente in volontari; spesso statisticamente significativo, è comunque clinicamente poco rilevante, soprattutto quando il dolore è intenso. In situazioni diverse dal dolore è difficile distinguere l’effetto placebo da ciò che in ogni caso avviene spontaneamente in un gruppo di soggetti che non riceve alcun trattamento 1. Mancano inoltre ricerche che stabiliscano quale sarebbe l’effetto del placebo se il paziente sapesse che il prodotto somministrato non contiene alcun principio attivo.
L’uso del placebo al di là dell’impiego in ricerca è comunque in contrasto con l’attuale etica che esige una completa informazione del paziente su ciò che gli viene somministrato. Inoltre, se fosse disponibile un farmaco efficace, la somministrazione del placebo all’insaputa del paziente rappresenterebbe una truffa o comunque un atto deontologicamente condannabile. Non sarebbe certo ammissibile l’uso di prodotti omeopatici per il controllo del dolore quando esistono diverse classi di farmaci per i diversi stadi di gravità, fino alla morfina.
Gli oltre 30.000 prodotti omeopatici trovano spesso mercato per problemi di salute minori o in associazione con i prodotti della medicina “ufficiale”, in situazioni insomma che facilitano affermazioni basate sull’impressione anziché sull’evidenza. Il trattamento omeopatico per fortuna è raramente utilizzato nel trattamento dei tumori, dell’infarto, del diabete e di altre gravi condizioni patologiche, proprio a dimostrazione della sua inefficacia.

L’omeopatia è un rischio per la salute pubblica
L’affermazione secondo cui i prodotti omeopatici, somministrati in un contesto capace di indurre un’aspettativa terapeutica, producono effetti che il paziente sperimenta direttamente muove controcorrente rispetto a un processo di razionalizzazione che a fatica ha promosso una medicina basata sull’evidenza scientifica, svuotando di significato le esperienze soggettive, le impressioni personali, le convinzioni arbitrarie che servivano a caratterizzare le scuole di pensiero (e di medicina). Per non parlare della suggestione, dell’emotività su cui si regge tale affermazione: sarebbe come se nella gestione di un’azienda o di un patrimonio ci si affidasse all’oroscopo o ai tarocchi anziché al parere di esperti.
Soprattutto se suggerita dagli addetti ai lavori – scienziati, medici, operatori e gestori della Sanità – questa visione può rappresentare un grave rischio per la salute pubblica: infatti, legittimando l’uso del prodotto omeopatico, quella visione rischia di generare disinteresse e sfiducia nella medicina basata sull’evidenza e di scoraggiarne l’accesso da parte di medici e pazienti. Enfatizzare il ruolo dell’omeopatia disincentiva anche la ricerca e lo sviluppo di rimedi davvero efficaci. Il mercato del farmaco è indubbiamente remunerativo, ma richiede ingenti investimenti intellettuali e finanziari che raramente portano a un prodotto degno di essere sviluppato fino alla fase clinica e capace di cogliere l’approvazione delle autorità regolatorie. Il mercato dell’omeopatia non necessita di tutto questo: consente lauti guadagni senza esporre a rischi e senza richiedere innovazione tecnologica. L’industria abbandonerebbe volentieri la ricerca, incerta e dispendiosa, di farmaci innovativi se il mercato si accontentasse di prodotti omeopatici.

In conclusione:
il placebo ha un ruolo negli studi clinici controllati ma non è utilizzabile come terapia, neppure a scopo compassionevole, perché tale effetto richiede la non consapevolezza del paziente circa il trattamento cui è sottoposto; l’etica deontologica e la legge richiedono invece una completa informazione del paziente, oltre che il suo consenso;
invocare l’effetto placebo di prodotti omeopatici è incongruo: mentre l’uso del placebo dichiaratamente non ha scopi terapeutici, l’uso del prodotto omeopatico si basa sull’inganno, dichiara scopi terapeutici che non sono provati da adeguate sperimentazioni cliniche e che la legge non consente di indicare (Directive 2001/83/EC);
oltre che non etica, la difesa di un falso ruolo dell’omeopatia – come capace di proprietà terapeutiche per sé o attraverso un presunto effetto placebo – rappresenta un rischio per la salute pubblica perché allontana i pazienti da trattamenti efficaci e disincentiva la ricerca e lo sviluppo di farmaci innovativi.  

Proscioglimento del Dott. Nello Martini, ex direttore generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco

 

Il Giudice di Roma, Dott.ssa Maria Teresa Covatta, l’8 luglio u.s., in relazione al procedimento contro il Dott. Nello Martini, già Direttore Generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco fino al luglio 2008, imputato del reato di disastro colposo, ha pronunciato sentenza di non luogo a procedere con la formula “perché il fatto non costituisce reato“.

La sentenza del Giudice dell’Udienza Preliminare (GUP) di Roma, che nel corso di questi mesi ha scrupolosamente approfondito i fatti, riconosce l’assoluta mancanza di responsabilità da parte del Dott. Nello Martini e l’assenza di qualsivoglia sua colpa nella conduzione dell’AIFA.

La circostanza che questo riconoscimento avvenga all’esito dell’udienza preliminare dimostra la fragilità dell’accusa; talmente evidente da non necessitare del vaglio dibattimentale. L’esito è, peraltro, in sintonia con l’opinione espressa da sempre nel mondo sanitario, sia in ambito nazionale che internazionale, a proposito dell’altissimo profilo professionale del Dott. Martini e dell’inconsistenza, dal punto di vista scientifico, delle censure mosse al suo operato.

Il Dott. Martini ha così commentato la sentenza: «Dopo oltre 2 anni dalle gravissime imputazioni della Procura di Torino di “disastro colposo” – per ritardato aggiornamento dei bugiardini di 20 specialità medicinali in commercio in tutti i Paesi europei da 20 anni (!) – e dal mio allontanamento dall’AIFA, il GUP di Roma ha stabilito il non luogo a procedere dichiarando insussistenti e prive di fondamento le accuse e le imputazioni che mi erano state rivolte. Ho sempre creduto in un esito positivo di questa vicenda grottesca e surreale, anche se la sentenza del GUP non cancella i danni arrecati all’AIFA e al suo progetto, e non cancellerà mai la violenza mediatica subita, l’isolamento professionale e l’amarezza della vicenda personale e umana. Dedico questa sentenza alle persone che, direttamente o indirettamente, hanno dovuto pagare duramente le conseguenze di questa vicenda, a quelli che ci hanno creduto fino in fondo e non hanno mai mollato e a quanti, per ragioni nobilissime o per opportunismo, hanno staccato la spina». 





Bibliografia
1. Hróbjartsson A, Gøtzsche PC. Is the placebo powerless? An analysis of clinical trials comparing placebo with no treatment. New Engl J Med 2001; 344: 1594-602.